Buttiamola sul rider

Molti di voi, ne sono certo, hanno avuto modo di seguire in questi giorni la vicenda del “rider ricco e felice”, apparsa il 15 gennaio 2021 sull’edizione on line del quotidiano La Stampa, a firma di Antonella Boralevi, nome d’arte con cui, per brevità, sigla i propri articoli la fiorentina Antonella Mannocci Galeotti di Larciano.

La briosa penna della Mannocci Galeotti di Larciano – nessuna affinità con la più nota, anche se immaginaria, Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare – narra le vicende di un benestante commercialista romano, il trentasettenne Dottor Emanuele Zappalà, costretto dal Covid a chiudere il suo studio e a trasformarsi in un rider della Deliveroo.

Anziché perdersi d’animo, il Dottor Zappalà, in questa che potrebbe essere definita un’esemplare novella morale, si è messo a lavorare sodo, vedendo così lievitare le proprie entrate, fino a raggiungere i 4 mila euro mensili: molto più di quanto non raggranellasse prima col suo mestiere di commercialista.

È dunque una meravigliosa storia di “speranza e dignità”, come la definisce la stessa autrice nell’articolo, quella di questo improvvisato rider per necessità, subito rilanciata sui social come eccezionale esempio di resilienza e di successo, anche in tempi di pandemia.

Molti di voi, ne sono altrettanto certo, hanno avuto modo anche di venire a conoscenza del seguito della vicenda. Infatti, a una più attenta ricostruzione, apparsa il 18 gennaio su altre testate giornalistiche, tra cui The Submarine e Open, il giornale online diretto da Enrico Mentana, la gratificante novella morale è parsa sciogliersi ben presto come neve al sole.

A quanto ricostruito da Open e da The Submarine, infatti, la storia sarebbe un po’ diversa da quanto si pensasse inizialmente. Emanuele Zappalà esisterebbe sì davvero e lavorerebbe realmente come rider, però già dal 2018, quindi da ben prima del Covid. Inoltre non sarebbe mai stato un commercialista, non avrebbe mai avuto un proprio studio, mentre, in compenso, sarebbe tra i firmatari di un accordo siglato con Deliveroo, che potrebbe anche far supporre un suo interesse nel dipingere in modo particolarmente positivo l’azienda.

L’informazione jazz

Negli stessi giorni in cui i social rilanciavano questa notizia, ne appariva anche un’altra, sempre ambientata a Roma, di segno però diametralmente opposto: la morte del “rider jazzista” Adriano Urso. Di questa vicenda abbiamo parlato anche noi di RomaReport, sia in un articolo apparso il 18 gennaio, sia come spunto per un racconto di fantasia, sempre sul tema delle conseguenze sociali della crisi, che porta la mia firma.

Se la vicenda del commercialista pareva un esempio di come trasformare un problema in un’opportunità di successo, quella del rider jazzista sembrava invece la prova di come la crisi avesse messo a terra intere categorie, come quella dei lavoratori dello spettacolo, portandole a un tale livello di fame e sfruttamento da poter arrivare alla morte.
Anche in questo caso la storia di Adriano Urso fungeva da perfetto esempio, speculare all’altra del dottor Zappalà, di come la pandemia avesse trasformato molte persone in “carne da macello sociale”.

Indipendentemente dalle reali e pesantissime conseguenze sociali che alcune scelte politiche fatte in questi mesi hanno causato per molte categorie, anche in questo caso, però, i media hanno calcato un po’ troppo la mano, esagerando lo stato di necessità per il quale il jazzista disoccupato avrebbe intrapreso la carriera di rider, fino a morire sul lavoro, a causa di un infarto.

In realtà, la sua situazione economica non era ancora così disperata come è stata dipinta, né la sua attività si svolgeva h24, per 7 giorni su 7, come pareva quasi di capire dalla lettura di alcuni giornali. Il che non toglie una virgola alla tragicità della sua morte, anche se forse toglie qualche punto all’affidabilità di alcune fonti d’informazione.

Presi dalla volontà di dimostrare una tesi precostituita, fosse quella dell’andrà tutto bene, oppure quella opposta del moriremo tutti, noi che svolgiamo questo lavoro d’informazione, io per primo, abbiamo troppo spesso la tendenza a forzare i fatti, per trascinarli verso la direzione più congegnale alla nostra tesi, a volte a discapito della stessa realtà.
È una cosa tollerabile e fisiologica quando avviene entro alcuni limiti di correttezza deontologica, un po’ meno quando finisce per sfociare in veri e propri falsi. Il confine è sesso labile e poco evidente.

Roma e le fake news

Se pensiamo che questa tendenza sia un segno dei tempi, l’esito degenere della deriva social della nostra società, di un’informazione che ormai non verifica più le fonti, venendo poi rilanciata e avvalorata rapidamente da numerosi e improvvisati tuttologi, specializzati all’università della vita, con inesistenti master in comunicazione presi su Facebook, beh, ci sbagliamo di grosso.

La tendenza alle bufale è ben più antica dei social e persino dell’invenzione della stampa. Proprio noi romani dovremmo saperlo meglio di altri, visto che abbiamo la paternità di quella che è forse la più colossale e longeva fake news della storia. Un falso, spacciato per vero, vecchio di circa milleduecento anni e creduto come autentico per secoli: la Donazione di Costantino.

Se Roma, per circa un millennio, ha avuto a capo un Papa Re, è anche grazie alla falsa notizia, fatta girare ad arte a partire dall’ottavo secolo dopo Cristo, per la quale nel 315 d.C. l’imperatore romano Costantino aveva lasciato in dono al Papa i luoghi più importanti della Città Eterna, dichiarando il suo potere superiore a tutti gli altri poteri esistenti.

Si trattava di una falsità totale, inventata di sana pianta per giustificare il potere temporale del papato. Una falsità che venne smascherata nel 1440 dallo studioso Lorenzo Valla, con prove inoppugnabili. Eppure quella fake news aveva ormai attecchito così bene e così a lungo, che, nonostante tutto, il Papa restò tranquillamente il Re di Roma per altri quattrocentotrent’anni, continuando, come se nulla fosse, ad attribuire il proprio potere e il proprio primato a quell’inesistente donazione.

Come ciò sia potuto accadere è presto detto. Non si trattava solo della tendenza del potere e dell’informazione a diffondere notizie utili a loro stessi, a fare cioè propaganda. Si trattava e si tratta ancora oggi, soprattutto di una tendenza psicologica, umanissima anche se spesso molto fuorviante e pericolosa, che fa accettare per buone le informazioni gratificanti e rassicuranti, anche quando cozzano con la realtà dei fatti.

Nel caso specifico della donazione costantiniana, la notizia che il potere del Papa avesse nobili origini imperiali, era infatti molto gratificante e rassicurante non solo per il Papa stesso, come è ovvio, ma anche per l’ultimo dei romani, che attraverso il Papa si sentiva anch’egli nobilitato dalla inesistente mano di Costantino. Perciò la fake news ebbe un immediato successo popolare, resistendo a ogni fondata critica, mentre il povero Lorenzo Valla dovette aspettare secoli per vedere riconosciuto il proprio faticoso lavoro di svelamento, fatto in nome della verità.

La vera informazione è fiction

Concludendo, se dunque l’informazione rischia spesso di trasformarsi in fiction, con notizie o totalmente false o solo in parte reali, arricchite da fronzoli e dettagli più o meno fantasiosi, che finiscono spesso per snaturarne il senso; per paradosso, un’informazione più autentica e, in fondo, più onesta, può esserci fornita proprio dalle opere di fantasia.

La realtà, in fondo, la raccontano bene solo i romanzi, i film, ma anche i quadri, i fumetti, le vignette. Un semplice manifesto di Toulouse Lautrec ci parla della Parigi belle époque molto meglio di tutti i giornali dell’epoca. E per la Roma di oggi penso ad esempio alle immagini, diverse per stile e per contenuti, di autori come Zerocalcare, o come Osho, o come Makkox.

Penso anche ai film dei fratelli D’Innocenzo, o a tante altre opere di artisti, che presentano la città, la politica, la società, senza la pretesa di narrare degli autentici retroscena, delle verità nascoste ed esclusive. Senza spacciare per vere le fantasie di chi ne è l’autore, che sono e restano fantasie, presentate al pubblico come tali. A volte con l’unico banale obiettivo di strappare una risata. Eppure, proprio per questo, capaci di cogliere realtà profonde che nessuna cronaca potrà mai cogliere.

Per questo, se vogliamo capire cosa succede davvero in città e nel mondo, è spesso meglio buttare via i giornali, spegnere la tv, scollegarsi dai social e cominciare a leggere un romanzo, un fumetto, guardare una fiction, un film, un cartone animato. C’è molta più autenticità in ciò che non nasconde di essere falso, rispetto a ciò che si presenta troppo ammantato di – spesso inesistenti – verità.

[La foto del titolo è stata diffusa con licenza creative commons su Flickr.com]

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