1915: la Lazio e lo “Scudetto Mutilato”
Quando, qualche tempo fa, l’avvocato romano Gian Luca Mignogna, riesumò dalla polvere un caso vecchio di oltre cento anni, al grido di “è il più grave scandalo del calcio italiano!”, col presidente della Lazio, Claudio Lotito, a fargli ben presto da eco, in molti rimasero sorpresi. Di cosa stavano parlando quei due? Di un nuovo caso Moggi? Di qualche giocatore corrotto che stava vendendo partite? Di arbitri accondiscendenti che avevano assegnato inesistenti rigori? No, nulla di tutto questo. “Il più grave scandalo del calcio italiano”, in base al pensiero dell’avvocato Mignogna, è un vecchio, anzi si potrebbe ormai dire antico, campionato, interrotto a causa dello scoppio della Grande Guerra: quello del 1915.
Detta così, farebbe un po’ sorridere: il calcio, negli ultimi anni, ne ha vissute di tutti i colori. Di scandali, di tradimenti, di combines, se ne sono viste di ogni foggia e tipo. Possibile scaldarsi tanto per degli episodi lontani un secolo, per un campionato interrotto, non da volontà maligne, ma da oggettive cause di forza maggiore, come lo scoppio di una guerra mondiale? Eppure, a riguardare quei fatti, l’avvocato Mignogna tutti i torti non li ha. Il caso di quello strano campionato, a vedere meglio le carte, assume infatti i contorni ambigui del classico “papocchio all’italiana”, pieno di inesattezze, di abusi d’ufficio, di decisioni discutibili, di documenti scomparsi, in cui persino la tragedia della guerra finisce per assumere contorni grotteschi.
Nel paese dei guelfi e dei ghibellini, subito sulla vicenda si sono schierate le opposte, irriducibili, tifoserie. Da una parte i tifosi della Lazio, che reclamano a gran voce l’assegnazione di quel tricolore. Dall’altra quasi tutti gli altri, a partire dai fan genoani, visto che, a guerra finita, fu proprio il Genoa a vedersi assegnare d’ufficio quel campionato mai concluso. Per comprendere meglio le cose, occorre però fare un salto nel tempo e ritornare per un attimo a quel calcio delle origini, ripercorrendo i fatti che hanno scatenato l’accesa disputa.
La grande Lazio degli anni Dieci
In porta Rossi e Serventi; in difesa Amici, Bona, Furia, Levi, Maranghi, Saraceni II, Terrile; a centrocampo Caporali, De Gubertinis, Di Napoli I, Di Napoli II, Donati, Faccani, Grasselli, Zucchi; in attacco Bocca, Consiglio, Coraggio, Corelli, Cella, Fioranti, Furia, Raffo, Saraceni I, Zoppi. Questa è la rosa di giocatori con cui la Società Sportiva Lazio si apprestò ad affrontare la “Prima Categoria” (non si chiamava ancora “Serie A”) del 1914-15. Sotto la guida del mister Guido Baccani, che schierava la squadra con un aggressivo 2-3-5, la compagine biancoceleste, era da anni la dominatrice assoluta del campionato del centro-sud.
Già, perché all’epoca non esisteva ancora un campionato italiano a girone unico, introdotto solo molti anni più tardi, ma una serie di campionati locali, con formule piuttosto complesse e articolate, che andavano poi a confluire, a partire dall’edizione 1912-13, in due distinti campionati: quello dell’alta Italia e quello del centro-sud. La squadra vincitrice del campionato del nord, andava poi a sfidare quella del centro-sud, in una finale che avrebbe assegnato il titolo nazionale.
Se al nord, nel corso degli anni, le squadre finaliste erano variate (la Pro Vercelli nel ‘13, il Casale nel ’14), la vincitrice del centro-sud, da quando era stata avviata questa formula, aveva sempre lo stesso identico nome: quello della SS Lazio. Troppo il divario fra la Lazio e le altre compagini centro-meridionali. Ma al tempo stesso anche troppo, però in senso inverso, il divario fra la Lazio e le squadre del nord. Nella finale contro la Pro Vercelli, disputata a Genova, in campo neutro, nel giugno del 1913, i biancocelesti erano stati seccamente battuti per 6-0. Non era andata meglio nel 1914 contro il Casale, con doppia finale di andata e ritorno. A Casale Monferrato i laziali subirono un umiliante 7-1, per poi perdere anche a Roma, al ritorno in casa, per 0-2.
C’è però da dire che la Federazione nazionale, molto condizionata dalle squadre del nord, nella formula varata, non aveva pensato al divario di tempo con cui si sarebbero conclusi i campionati dell’alta Italia (con più squadre partecipanti e quindi con più gare) e quello del centro-sud, con meno squadre e meno partite da svolgere. Questo faceva sì che la vincitrice di quest’ultimo, cioè la Lazio, finiva i propri incontri ufficiali alcuni mesi prima delle squadre del nord, con un inevitabile scadimento di forma al momento di giocare la finalissima. Il Comitato Regionale Lazio, pertanto, dopo la finale del ’14, chiese che in futuro i due campionati potessero concludersi a breve distanza l’uno dall’altro, onde evitare che la finalista peninsulare fosse svantaggiata rispetto a quella settentrionale. La proposta, però, non venne accolta da parte della federazione nazionale.
L’inizio del Campionato 1914-15
La Prima Categoria 1914-15 prese le mosse nell’autunno del ‘14. A Sarajevo, pochi mesi prima, l’Arciduca Francesco Ferdinando era stato ucciso in un attentato, precipitando l’Europa in una guerra devastante. L’Italia, in quei mesi, pareva intenzionata a restare fuori da quel conflitto. Nell’autunno del ’14 il nostro paese si manteneva neutrale, dunque le manifestazioni sportive continuavano a svolgersi regolarmente, incluso il campionato di calcio. Il dubbio che però le cose potessero precipitare da un momento all’altro, attraversava molte persone, a partire dal presidente federale Carlo Montù. A ingigantire quei dubbi, sul finire del ’14, arrivò la mobilitazione preventiva dell’esercito italiano, che privò molte squadre di diversi giocatori. Compagini come il Savoia Milano, il Piemonte, l’Itala Firenze, decisero di dare forfait.
Nonostante tutto, il campionato del nord si svolse senza modifiche alla formula. Il sistema di selezione era piuttosto articolato, con una serie di campionati regionali, da cui sarebbero venute fuori sedici squadre, divise in quattro gruppi e infine in un girone finale all’italiana, di cui avrebbero fatto parte le vincitrici di ciascun gruppo. Dopo lo svolgimento delle prime fasi, in questo girone conclusivo, furono ammesse il Genoa, che aveva eliminato il Casale campione in carica, il Torino, che si era imposto sulla Pro Vercelli, già vincitrice di cinque campionati, ma con un organico ormai non più giovanissimo né prestante come un tempo, oltre a due squadre milanesi: l’Inter e il Milan.
Diversamente andò al centro-sud. Qui, il torneo, secondo le previsioni originarie, era stato diviso in tre raggruppamenti: quello centrale, comprendente Marche, Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzi: quello meridionale, a cui partecipavano Campania, Calabria, Basilicata e Puglie; quello insulare, per le squadre siciliane e sarde. La vincitrice insulare avrebbe dovuto sfidare in gara doppia la vincitrice meridionale e la vincente di tale incontro, sempre in gara doppia, avrebbe dovuto disputare, contro la vincitrice centrale, la finale per il titolo di “Campione dell’Italia centro-meridionale”. Alla competizione, però, si iscrissero solo club di Toscana, Lazio e Campania, costringendo la Federazione a cambiare in corsa le regole.
Gli “scandali” dei tesseramenti
Al centro si optò dunque per disputare due gironi preliminari regionali, uno laziale e uno toscano, in cui le prime due classificate si sarebbero qualificate per un girone a quattro interregionale, che avrebbe assegnato il titolo di campione del centro. A questo girone finale parteciparono il Lucca, il Pisa, il Roman e la Lazio, che ne risultò la vincitrice. Le due squadre campane, uniche iscritte del sud e delle isole, l’Internazionale Napoli e il Naples, si scontrarono invece in un doppio incontro di andata e ritorno. A prevalere fu l’Internazionale Napoli, che avrebbe dunque dovuto affrontare la Lazio, nella finale del torneo del centro-sud. Ma a causa di alcune irregolarità nei tesseramenti dell’Internazionale, si decise di non omologare i risultati e di far ripetere le gare fra le due squadre partenopee.
Irregolarità, nel frattempo, furono riscontrate anche da parte del Genoa, che, a fronte di un compenso in denaro, aveva tentato di ingaggiare Angelo Mattea, attaccante del Casale e stella calcistica dell’epoca. I regolamenti di allora prevedevano l’assoluto dilettantismo dei calciatori e il divieto di ogni forma di compenso. Il Genoa, tra l’altro, risultava recidivo, dato che casi analoghi si erano avuti da parte della società ligure anche nella stagione 1913-14, con compensi “illegali” dati ai calciatori Enrico Sardi e Aristodemo Santamaria. Per il Genoa si temette il peggio, ma alla fine la Federazione si limitò a una squalifica di due giornate del campo genoano e al divieto per Mattea di trasferirsi alla corte dei rossoblu.
L’interruzone improvvisa
Nonostante lo scandalo e malgrado una sconfitta per 6-1 subita sul campo del Torino, dopo la penultima giornata del girone finale del torneo dell’alta Italia, era intanto proprio il Genoa la squadra al comando della classifica di quel campionato, con 9 punti, davanti a Torino e Inter con 7 e al Milan con 3. Restava da disputare solo la giornata conclusiva, con in programma la gara Genoa-Torino e il derby Inter-Milan. Al Genoa bastava un pareggio per laurearsi campione del nord, però, visto il largo successo del Torino nella gara di andata, nulla era ancora deciso e, sia lo stesso Torino, sia l’Inter, parevano ancora in grado di aspirare al titolo.
Era dunque questa la situazione, alla vigilia degli scontri in calendario per domenica 23 maggio 1915. Ma, ventiquattr’ore prima dell’inizio delle gare, il 22 maggio, il Re Vittorio Emanuele III proclamò la mobilitazione generale dell’esercito italiano: primo atto formale, in vista dell’entrata in guerra, che sarebbe stata ufficializzata il 24 maggio di quell’anno.
La Commissione Tecnica della FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, presieduta da Antonio Scamoni, decise a quel punto per l’immediata sospensione del campionato, senza però curarsi di consultare le società interessate e senza convocare neanche il presidente federale Montù. Questa improvvisa interruzione del torneo fu subito aspramente criticata, sia da alcuni club partecipanti, tra cui il Genoa, sia da diverse testate giornalistiche.
La rivista “Il Football”, ad esempio, fece presente che negli stessi giorni si tennero regolarmente altre manifestazioni sportive, rimarcando inoltre che, dei giocatori partecipanti al torneo calcistico, solo la metà rischiava di essere chiamata alle armi. Ad ogni modo, i dirigenti della FIGC, essendo convinti che il conflitto si sarebbe concluso nel giro di pochi mesi, misero a tacere le polemiche, stabilendo che la manifestazione sarebbe stata ultimata alla cessazione delle ostilità.
L’assegnazione a tavolino
La guerra durò più di tre anni, fino al novembre del ‘18. Il Consiglio Federale, sempre presieduto da Carlo Montù, tornò a riunirsi solo nel 1919 e, col titolo rimasto vacante da quattro anni, comprese che non avrebbe avuto più senso, ormai, far giocare, come inizialmente previsto, le gare restanti del torneo interrotto nel ‘15. Molti fra gli atleti partecipanti, tra l’altro, erano deceduti sulle trincee del fronte. Si decise pertanto di assegnare il titolo al Genoa, in quanto primo in classifica al momento della sospensione. Primo in classifica, sì, ma nel campionato del nord. Nessuno prese in considerazione le squadre del centro-sud, considerate inferiori calcisticamente, sebbene sulla carta avessero pari ruoli e pari diritti.
L’assegnazione ufficiale del titolo slittò però di ulteriori due anni. Subito, infatti, scattarono le proteste ufficiali del Torino e dell’Inter, compagini ancora in grado matematicamente di raggiungere in classifica i genoani. Il mister torinista Vittorio Pozzo, futuro allenatore della nazionale italiana campione del mondo nel ’34 e nel ’38, così dichiarò: “Quindici giorni prima della sospensione, il Genoa lo avevamo battuto in casa nostra per il notevole risultato di 6-1. Avevamo, in quel giorno, scoperto varie debolezze del sistema difensivo genoano, e con un giuoco tutto d’attacco le avevamo sfruttate appieno. Se noi battevamo il Genoa anche nella partita di ritorno, ed eravamo ben decisi a farlo, il Torino passava in testa, e il campionato era nostro. Questa la convinzione di tutti noi granata, quando, come su comando del fato, cessammo di giuocare e partimmo soldati”.
La vicenda si sarebbe chiusa solo nel 1921. “Genoa Club”, la rivista ufficiale dei rossoblu, annunciò nel mese di settembre di quell’anno la definitiva concessione della vittoria ai genoani, alla quale l’11 dicembre sarebbe succeduta la cerimonia formale di premiazione. Tutto finito, dunque, pur tra i mille dubbi sulla giustizia di tale assegnazione? Neanche per sogno, perché ecco irrompere, a cento anni esatti di distanza dai fatti, la ricerca condotta dall’avvocato Gian Luca Mignogna e dal “Centro Studi Nove Gennaio Millenovecento” (l’ente deputato allo studio della storia della Lazio), che mette in discussione l’ufficialità del titolo genoano, affermando che il Genoa sarebbe stato dichiarato unicamente campione del nord e non campione d’Italia e che la premiazione del dicembre ’21 fosse solo un’onorificenza, senza alcun valore formale.
A sostegno di tale tesi, Mignogna sottolinea l’assenza di documenti comprovanti l’assegnazione formale del titolo italiano 1915 negli archivi della FIGC, evidenziando che il primo documento federale che attesti i genoani quali vincitori nazionali, fu l’albo d’oro dell’Annuario Italiano Giuoco del Calcio, pubblicato nel 1930, nel quale però non vengono menzionati gli atti formali per cui il campionato del ‘15 sarebbe stato aggiudicato al Genoa.
La Lazio reclama il titolo
E così, nel dicembre 2015, Mignogna dalle ricerche d’archivio passa alla battaglia legale, avanzando formalmente una richiesta ufficiale alla FIGC di attribuzione del titolo 1915 ai biancazzurri, a pari merito coi rossoblu. Il 20 luglio 2016 la commissione di saggi, nominata dalla FIGC per analizzare il caso, dopo aver esaminato la documentazione al riguardo e constatato che negli archivi federali non vi è traccia della delibera di attribuzione dello scudetto al Genoa, esprime parere favorevole all’assegnazione congiunta del campionato a genoani e laziali.
Ecco però che scatta la reazione genoana. La Fondazione Genoa, nel giugno 2017, risponde al dossier biancoceleste, trasmettendo alla FIGC una propria documentazione, in forte contrasto con le tesi laziali e con la possibile assegnazione del titolo a pari merito, sottolineando anche come “il risultato della finale nazionale fosse, all’epoca, considerato pressoché scontato a favore delle squadre settentrionali”. Dopo che il procedimento subisce una battuta d’arresto, durante il commissariamento della FIGC avvenuto nel corso del 2018, l’iter riparte nel 2019, quando il presidente federale Gabriele Gravina, propone la creazione di una nuova commissione. Tutto dunque può ancora succedere e quello scudetto 1915 può ancora finire sul petto di diverse squadre.
Al di là di quanto emergerà dai documenti e di ciò che verrà formalmente deciso, sorge però spontanea una domanda: se è, a mio avviso, assolutamente arbitrario quel tricolore genoano e di conseguenza è legittima (e direi pure “sacrosanta”) la richiesta della Lazio di vedersi assegnato il titolo a pari merito, su un piano sportivo, non è forse ingiusto escludere dal procedimento il Torino e l’Inter, che al momento dell’interruzione erano ancora capacissime di vincere il trofeo del nord e di qualificarsi per la finale nazionale? E che dire delle squadre partenopee, di quell’Internazionale Napoli e quel Naples, che oggi formalmente non esistono più, ma che, sebbene calcisticamente inferiori, avevano ancora, esattamente come la Lazio, la possibilità di accedere alla finale del centro-sud e poi di conquistare il titolo?
A questo punto, sul piano della giustizia sportiva e del buon senso, sollevare dopo un secolo la polvere da quella vicenda, non è stata forse la migliore delle idee. Se da una parte si ripara un torto oggettivo e si annulla una scelta arbitraria come quella dello scudetto genoano, dall’altra, assegnando il campionato ex aequo a Genoa e Lazio, escludendo le altre compagini formalmente in lizza, si rischia di sostituire al torto antico un nuovo torto moderno. Meglio allora lasciare quel titolo vacante, o anche lasciare tutto com’è, giusto o ingiusto che sia, cercando di conquistare sul campo futuri successi, senza rincorrerne di antichi. A volte, infatti, anche la polvere può avere un suo perché.
Salve, la Sua ricostruzione è abbastanza attendibile, le Sue opinioni sulla definizione delccaso sono invece soggettive, e pertanto legittime ancorché discutibili.
Ci sono due ossevazionoli, tuttavia, che debbono essere messe nero su bianco:
1) Inter e Torino non possono più reclamare lo Scudetto 1915, perché hanno proposto i rispettivi reclami all’epoca e non sono legittimate a riproporene altri per il divieto posto dal principio del “ne bis in idem”;
2) la Lazio fu Campione Centro-Meridionale, come attestato da “L’Italia Sportiva” del Giugno 1920, quotidiano assolutamente attendibile perché tre mesi dopo diventerà organo ufficiale della Figc.
La concessione dell’ex aequo a Lazio e Genoa, infine, non lederebbe i diritti di nessuno, anzi avrebbe solo il merto di sanare un’ingiustizia centenaria.
E converrà con noi, per ripristinare storia e legalità non è mai troppo tardi, soprattutto in casi come questo in cui tutti i documenti rinvenuti dall’Avv. Mignogna, stranamente, erano totalmente spariti dagli archivi pubblici e federali…
Cordialmente.
La Consulta Biancazzurra
L’internazionale Naples ha lo stesso diritto della Lazio…anche se non esiste più. Quindi scudetto a 3..anzi no a 4..anche Torino..anzi no a 5..anche Inter…poracci sti laziali
Poveraccio tu, se solo sapessi leggere e interpretare i documenti. Vorresti dare lo Scudetto all’Internazionale Napoli che in quella stagione, forse, aveva disputato una sola partita, che non si sa nemmeno se sia mai stata omologata? Beh, mi sembra giusto, equo, insomma, non fa una piega… :-)))
Per tua informazione, Inter e Torino avevano presentato ricorso all’epoca. Fu rigettato e non possono riprentarlo. Però magari qualcuno può agire per quello del 1942, chissà che viene fuori…