Te piace ‘o presepe?

Dopo due anni nei quali le cronache natalizie capitoline avevano avuto un protagonista assoluto come Spelacchio, l’albero comunale di piazza Venezia, nel 2018 assurto alla notorietà nazionale per il suo scarso piumaggio e nel 2019 tornato sotto i riflettori grazie a un danaroso sponsor, il Natale romano 2020 ha un nuovo re: il presepe di piazza San Pietro.
Non c’è giornale che non ne parli, non c’è social che non ne rilanci le foto, quasi sempre per criticarlo e per gridare allo scandalo e al sacrilegio. Fosse un’operazione di marketing, dovremmo ammettere che sarebbe perfettamente riuscita: “bene o male purché se ne parli” recita un vecchio motto e, di sicuro, quel presepe è oggi sulla bocca di tutti, come non accadeva da tempo, o come forse non era mai accaduto.

A molti romani non piace il suo stile, definito sprezzantemente “modernista” (proprio quel modernismo scomunicato, ai primi del Novecento, da Papa Pio X), con la presenza di figure incongrue con la tradizione iconografica natalizia, come quella di un astronauta e quella di un antico guerriero dall’elmo cornuto. I numerosi critici di Papa Bergoglio si sono spinti anche oltre, vedendo, in questa scelta, il segno inequivocabile di una deriva sincretista del papato, reo di dare voce a un cristianesimo troppo conciliare e troppo lontano dalla sua originaria purezza, di avere instaurato una nuova religiosità panteista, animista, una “religiosità Pacha Mama”, come qualcuno l’ha definita, richiamandosi a quella divinità precolombiana della Madre Terra, adorata nelle terre del Sudamerica da cui anche Papa Francesco proviene.

Di fronte a tante critiche, così nette e senza appello, ritorna in mente un vecchio classico del teatro nazionale, quel “Natale in casa Cupiello”, che per decenni faceva la sua ricomparsa anche in tv, all’arrivo di ogni mese di dicembre. Pare di vedere l’anziano Bergoglio, nei panni che furono di Eduardo De Filippo, mentre descrive con entusiasmo le meravigliose figure che animano quella riproduzione della Natività, chiudendo la sua narrazione con la fatale domanda: “Te piace ‘o presepe?”. E i fedeli romani, rabbiosi, infastiditi, nelle vesti del figlio Luca, a rispondere secchi e sferzanti: “No, nun me piace!” Però coi ruoli di difensore e di traditore delle tradizioni, invertiti rispetto a quelli della commedia.

Incuriosito da tanto clamore mediatico, ho perciò deciso di andare a vedere di persona. D’altronde ho un glorioso passato da presepista. Ho fatto parte per anni della “Associazione Italiana Amici del Presepio”, quella che allestisce anche il presepe di piazza Navona; posso vantare numerose realizzazioni di presepi, pubblici e privati, tradizionali e innovativi e, dunque, posso guardare anche quello di piazza San Pietro spacciandomi per esperto della materia. Così, eccomi davanti a quelle grandi statue in ceramica, a forma cilindrica, provenienti da Castelli, un paese in provincia di Teramo, che quest’anno fanno sfoggio di sé in una delle piazze più belle del mondo.

Quello che molti non sanno, ma che viene spiegato ai visitatori da diversi cartelli posti davanti all’installazione, è che il presepe presentato quest’anno a San Pietro, ha oltre cinquant’anni di vita. Le statue di ceramica, infatti, furono realizzate fra il 1965 e il 1975 dagli alunni e dai docenti dell’Istituto d’arte “F.A. Grue” di Castelli, paese che dal XVI secolo vanta una tradizione di ceramisti. Fanno parte di una collezione di complessive 54 statue, di cui solo un piccolo numero è stato esposto in Vaticano. Ogni anno, infatti, gli alunni e gli insegnanti della scuola, ne aggiungevano di nuove, dedicate ai grandi eventi di quei tempi. Ecco dunque spiegata, ad esempio, la presenza dell’astronauta, dato che il presepe fu realizzato proprio in contemporanea col primo sbarco sulla luna, quasi a testimoniare che il messaggio del Cristo può arrivare anche oltre i confini del nostro pianeta, per diventare, letteralmente, un messaggio universale.

Forse è anche per questo legame forte con gli anni in cui è stata realizzata che, chi va lì aspettandosi di vedere il presepe modernista raccontato dai giornali, quella che trova, semmai, è una composizione d’epoca, dallo stile anni settanta ben riconoscibile e databile, che più che del nostro futuro ci parla del nostro recente passato. Un passato in cui, sì, in questo hanno ragione alcuni critici, lo spirito ecumenico del Concilio Vaticano II, appena conclusosi, era ben presente, così come erano presenti anche gli echi di quella Teologia della Liberazione, che nasceva sempre in quegli anni, ponendo l’accento sul ruolo centrale della Chiesa nella società contemporanea, da accogliere in toto, nei suoi drammi e nelle sue innovazioni.

Da un punto di vista artistico, se le statue, prese di per sé, risultano affascinanti, con la loro cilindricità, presa a spunto dal modulo usato nella realizzazione di vasi dai maestri ceramisti, che suggerisce anche l’universalità contenuta nel simbolismo del cerchio, l’installazione nel suo insieme risulta piuttosto deludente.
Le statue sono giustapposte l’una accanto all’altra, senza un vero e proprio disegno complessivo. Il tappeto rosso su cui sono collocate risulta inoltre cromaticamente incongruo, mentre il tetto di vetro e metallo bianco finisce per essere un po’ fastidioso, creando, soprattutto di giorno, delle ombre involontarie che disturbano l’armonia della composizione.

Eppure, nonostante queste premesse, trovo la scelta fatta per il presepe di San Pietro 2020, sebbene la sua realizzazione non sia perfetta, una scelta molto azzeccata.
Non solo perché quel presepe è riuscito comunque a far parlare di sé, in un’epoca in cui la tradizione presepistica sembra essere passata di moda, sostituita dal ben più pagano (quello sì) albero di Natale, ma anche perché il sincretismo di cui viene accusato, è in fondo la sintesi delle tante anime del cristianesimo, dei tanti modi che, nel mondo e nei secoli, l’umanità ha trovato per viverlo, nonché delle mille tradizioni e stili che il presepe stesso può vantare. Già, perché non esiste solo il presepe con la capanna di legno e il prato fatto col muschio. Esistono, da secoli, numerose e diversissime scuole presepistiche, ciascuna, ai tempi in cui nacque, innovativa e rivoluzionaria, ciascuna, vista con gli occhi di oggi, rassicurante e tradizionale.

Quei presepi delle varie tradizioni sono tutti lì. Non solo simbolicamente rappresentati nel presepe sincretista, ma fisicamente presenti nella piazza. È una cosa che non appare sui giornali, ma il presepe modernista in ceramica è solo uno dei cento presepi presenti quest’anno in piazza San Pietro: il più grande, il più visibile, il più fotografato, ma non l’unico. Nascosti e protetti dal colonnato del Bernini, ne sono presenti, infatti, molti altri, provenienti da vari luoghi d’Italia e del mondo, nei più diversi stili. E lì, chi vuole la tradizione, la trova senza fatica. Ce ne sono di quelli con la classica capanna; ce ne sono in stile romano, cioè quelli ambientati nella Roma sparita ottocentesca dipinta nei quadri di Roesler Franz; ce ne sono della tradizione settecentesca napoletana, con le statue vestite da abiti sfarzosi o da poveri cenci, tutti immancabilmente di vera stoffa, con la Natività che nasce, non in una grotta, bensì in uno “scandaloso” (così almeno fu percepito tre secoli fa) tempio pagano in rovina. Una simbologia che sta a indicare come Gesù rinnovi e dia un senso vitale alla morente spiritualità degli antichi.

La storica sede dell’associazione di presepisti di cui facevo parte, nei locali sottostanti la chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, ai Fori Imperiali, è anche un museo del presepe aperto tutto l’anno, che vi invito a visitare. Guardando gli oltre mille presepi lì custoditi, vi renderete conto che parlare di presepe tradizionale, è, di fatto, una castroneria. Come in ogni forma d’arte e di artigianato, anche per il presepe non esiste “la” tradizione, unica e immutabile, ma esistono centinaia di stili e dunque di tradizioni, diversissime fra loro, ciascuna con le proprie regole e i propri secoli di storia, ciascuna anche capace di innovarsi e di modificarsi di anno in anno. Persino il nome che lo definisce non ha una tradizione unica: presepe o presepio? In quel museo troverete presepi storici fatti con la zucca o con i semi di mais, di legno e di metallo, figurativi e simbolisti. Nessuno è il presepe giusto o quello sbagliato, ma tutti contribuiscono in uguale misura a portare avanti una tradizione artistica e un comune spirito sacro.

La Chiesa, tutto questo lo sa. Anche quella Chiesa apparentemente più tradizionalista, eppure sempre capace di cogliere e di adattare il proprio immutabile messaggio allo spirito dei tempi. Ed è proprio questo che ha permesso alla chiesa di restare viva nei millenni, nonostante le trasformazioni che, in questi duemila anni, hanno spazzato via istituzioni e culture che sembravano inamovibili.
Nel 1991 mi trovai a realizzare un grande presepe per il Centro Italiano di Solidarietà. Scelsi uno stile che probabilmente non piacerebbe a molti dei critici dell’attuale installazione di San Pietro, con statue stilizzate, monocromatiche, in polistirolo e vetroresina, oltre a teli coloratissimi che si irraggiavano dalla mangiatoia. Eppure né il Cardinal Ruini, allora vicario di Roma, né Giulio Andreotti, all’epoca presidente del consiglio, due personaggi che non vengono certo ricordati per il loro progressismo, accusarono il mio presepe di sacrilego modernismo, fuggendo scandalizzati, ma anzi vennero a inaugurarlo e benedirlo, felici di trovare un giovane che innovava un’antica tradizione sacra.

Non era la chiesa “Pacha Mama” di Papa Bergoglio, bensì quella tradizionalista di Karol Woitila, con la sua longa manus politica, rappresentata dalla Democrazia Cristiana, che benedì il mio presepe rivoluzionario. A maggior ragione la chiesa, tutta, anche quella più conservatrice e vicina allo spirito di Joseph Ratzinger, fa bene a benedire oggi il presepe modernista di Castelli, a presentare al mondo uno spirito capace anche di innovazione, ben sapendo che la sua anima antica è sempre presente e viva, come i cento presepi della tradizione, quelli ben custoditi e protetti, ma al tempo stesso accessibili e aperti agli occhi del mondo, sotto le colonne berniniane che, da quattro secoli, abbracciano e riempiono di meraviglia gli uomini e la cristianità.

 

[Le foto dell’articolo sono di Massimiliano Cacciotti]

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