AAA vendesi commercio romano

Nei giorni scorsi, a Roma, ha suscitato grandissime polemiche l’apertura del nuovo centro commerciale Maximo. In piena pandemia, oltre alle lunghe code che si sono formate sul Raccordo Anulare, all’altezza della via Laurentina, a causa dei tanti automobilisti che si stavano recando a visitarlo, le immagini di migliaia di persone assembrate in fila, per entrare nel nuovo negozio della catena Primark, presente nella struttura, hanno destato non poche perplessità.

C’è chi si è chiesto se non fosse il caso di evitare occasioni di assembramento nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria. C’è anche chi ha sottolineato gli aspetti economici e sociali della questione, con il piccolo commercio di vicinato già in grandissima difficoltà, anche a causa delle disposizioni e delle chiusure previste dai vari DPCM del 2020, a cui la nascita di un nuovo colosso rischia di dare il definitivo colpo di grazia.

I maggiori media hanno puntato sul vero o presunto scontro fra i piccoli commercianti e la grande distribuzione, fra le tradizionali vie dello shopping romano (via del Corso, via Cola di Rienzo, ecc.) e i centri commerciali (Porta di Roma, Roma Est, il Maximo), fra il negozietto sotto casa e i grandi marchi multinazionali. Con i primi, se non adeguatamente protetti, destinati inesorabilmente a soccombere ai secondi e a chiudere i battenti. Ma è davvero così? Sono questi i termini in cui la questione va posta nella Roma del 2020?

LA CRISI DEI CENTRI COMMERCIALI

Se questa impostazione era senz’altro vera nei primi anni 2000, oggi un approccio di questo tipo è ormai una battaglia di retroguardia. Che non tiene conto degli ulteriori, colossali, cambiamenti avvenuti in quest’ultimo decennio, a partire più o meno dal 2010, che non a caso è l’anno dell’arrivo in Italia di Amazon, il colosso della vendita online.

Oggi, infatti, non si tratta più di combattere la lotta dei piccoli commercianti, col loro valore aggiunto di “umanità e tradizione”, contro la grande e disumanizzante mega distribuzione. Oggi è l’intero comparto del commercio “fisico” a rischiare di essere spazzato via dalla concorrenza di quello virtuale. Dunque, non si tratta più di difendere solo l’alimentari sotto casa, o la piccola merceria: anche i grandi marchi di distribuzione rischiano un tracollo imminente e un fallimentare destino comune.

È infatti l’intero modello dei grandi centri commerciali a risultare ormai anacronistico, quello inaugurato a Roma non più di una quindicina di anni fa, soprattutto sotto la guida del sindaco Walter Veltoni, col suo sistema di “centralità urbane”, che prevedeva nei vari quadranti della città lo sviluppo di nuovi quartieri, da far sorgere attorno a grandi megastore, giganteschi “templi del commercio”, destinati, si immaginava all’epoca, a magnifiche sorti e progressive, anche se in fondo nati già vecchi, come poteva risultare chiaro a un osservatore più attento e lungimirante. E se risultavano vecchi già quindici anni fa, oggi quei centri nascono praticamente morti.

Guarda caso, negli stessi giorni in cui si apriva sulla Laurentina il Maximo, sul famoso portale Immobiliare.it compariva un annuncio di vendita sorprendente: un intero centro commerciale, il Dima Shopping di via della Bufalotta, inaugurato solo 15 anni fa, a Roma nord, è finito sul mercato sotto la dicitura “Capannone via Dario Nicodemi”, a rendere apparentemente più  banale e normale l’annuncio, quasi a sminuire l’importanza, anche simbolica, di quella operazione immobiliare. L’annuncio veniva poi cancellato il primo dicembre, a causa forse della troppa visiblità ottenuta.

IL FALLIMENTO DEL DIMA SHOPPING

La messa in vendita del centro commerciale Dima Shopping, desta stupore se si pensa che quello spazio non è, né è mai stato, la classica cattedrale nel deserto, ma al contrario è un luogo ottimamente integrato in una zona popolosa e benestante come Talenti, contornato da ogni tipo di servizi, da palestre e centri sportivi ben frequentati, da scuole, dal centro uffici Technocenter e infine inglobato in un elegante quartiere di nuova concezione, il rione Rinascimento, costruito dalla famiglia Mezzaroma, con case dotate di ogni confort e abitate da famiglie piuttosto agiate, dati i prezzi di vendita di quegli immobili.

Eppure, il centro commerciale Dima è da anni in sofferenza. Certamente l’apertura, a pochi chilometri di distanza, del grande colosso di Porta di Roma fu una mazzata difficile da digerire per chi gestiva lo spazio. Ma, guardando alla crisi dell’analogo centro Dima Shopping che la stessa società di gestione aveva contemporaneamente aperto a Bologna, si capisce che il problema non è, in realtà, legato alla vicinanza con un colosso commerciale di maggiori dimensioni (a Bologna non presente), ma a una sorta di difetto di fabbrica e di obsolescenza, più o meno programmata, che ogni centro commerciale porta ormai con sé.

Il Dima Shopping è, di fatto, la cartina di tornasole di come i centri commerciali non nascano quasi mai con la finalità di essere dei funzionali e funzionanti luoghi di vendita di merci e servizi, bensì come speculazioni immobiliari, dai contorni a volte foschi. Non a caso, dietro all’apertura dei centri Dima di Roma e di Bologna c’era l’immobiliarista romano Raffaele Di Mario, la cui società finì però sul lastrico già nel 2011, accusata dalla Procura di Roma di bancarotta fraudolenta.

E così, mentre il centro commerciale romano, proprio perché situato nella migliore delle posizioni possibili sul piano commerciale, continuò a funzionare, quello bolognese venne subito abbandonato, per divenire ben presto un rifugio abusivo per migranti e sans papier. Anche la successiva società di gestione del centro, la WCC Levante, finì rapidamente coi libri in tribunale e già nel 2016 gli fu imposta la messa all’asta dei propri beni di proprietà, incluso il centro romano di Bufalotta.

Le varie vicende legali di cui è stato protagonista il Dima evidenziano dunque una scarsissima attenzione per ogni questione legata al buon funzionamento delle vendite all’interno del centro, al suo legame col territorio e alla sua efficacia nel contrastare la concorrenza presente. Quando il Dima aprì, ad esempio, già si sapeva che, un paio di anni dopo, a poca distanza sarebbe sorto il centro di Porta di Roma, ma nessuno si preoccupò della questione, bloccando l’apertura o attuando tempestivamente le necessarie contromosse a livello di marketing. L’importante era, infatti, portare subito a termine l’operazione immobiliare.

Questo non vale solo per il Dima. Stesso discorso potrebbe essere fatto proprio per Porta di Roma, inaugurato poco dopo, ma ben sapendo che di lì a due anni, il colosso Amazon, già efficacemente operativo dal 1997 negli Stati Uniti, sarebbe sbarcato in Italia, con tutte le conseguenze negative che ciò avrebbe comportato per il commercio fisico. Per non parlare del Maximo, aperto pochi giorni fa, quindi con la consapevolezza piena della crisi in atto, accentuata ulteriormente dal Covid. Gli interessi economici relativi alle operazioni immobiliari legate alla realizzazione e poi alla commercializzazione di quegli spazi, lasciano sul fondo, infatti, ogni altra considerazione, non solo da parte di chi specula su quelle operazioni, ma anche da parte di chi, in teoria, dovrebbe vigilare.

Diceva Leo Longanesi, con una frase sempre rimasta valida, che: “Alla manutenzione, gli italiani preferiscono l’inaugurazione”. Perciò, mentre i segnali di crisi del modello dei centri commerciali risultano sempre più evidenti, nessun dibattito in proposito viene avviato dalle amministrazioni pubbliche, a partire dal Comune, né dagli stessi operatori di settore giungono proposte sensate e lungimiranti, non trovando di meglio da fare che inaugurare un nuovo mega centro, ben sapendo che quasi certamente, fra pochi anni, dato il contesto economico generale, ci ritroveremo a parlare del “clamoroso e inaspettato” fallimento del Maximo. Senza considerare gli sviluppi della pandemia, che, se dovesse proseguire a lungo, non potrà che peggiorare il quadro d’insieme.

LA MORTE DEI PICCOLI NEGOZI

Se Atene piange, Sparta di certo non ride. A fronte della crisi dei grandi centri commerciali capitolini, i piccoli e spartani negozietti di quartiere, sembrano ormai tanti eroici e velleitari soldati giapponesi, quelli rifugiatisi a combattere da soli nella foresta, anche quando il proprio paese si era da tempo arreso al nemico. Stretti, già da anni, nella doppia morsa della concorrenza della grande distribuzione e del commercio on line, la pandemia ha dato loro il colpo di grazia. Non solo a causa delle chiusure e delle limitazioni imposte dal governo alla categoria, ma anche per colpa dello smart working, che limita la presenza di potenziali clienti in giro per la città.

La situazione è ancora più grave via via che ci si avvicina al centro storico di Roma, laddove il turismo, oggi pressoché inesistente, costituiva il più grande volume di affari per i commercianti della zona, a fronte di costi di affitto e di gestione decisamente molto alti e oggi insensati, rispetto alla nuova situazione creatasi con il 2020.

L’ulteriore rischio, da noi denunciato già a inizio pandemia, è che, pur di sopravvivere, molti fra questi piccoli commercianti romani, finiscano per ricorrere all’usura (laddove ciò non sia già avvenuto), lasciando così in mano alle mafie, in tempi più o meno rapidi, tutto il commercio al dettaglio della capitale. Le mafie sono infatti gli unici soggetti che abbiano ancora un qualche interesse a rilevare attività fallimentari o in grave sofferenza economica, al fine di poter così ripulire, tramite la gestione di queste attività, il flusso di denaro sporco proveniente da altre occupazioni, di natura illecita.

Quali conseguenze sociali comporti questa situazione, è abbastanza facile da prevedere. Ecco perciò, di fronte a un quadro generale dalle tinte molto fosche, accentuato dalla pandemia, ma generato a monte da un’assenza o da una scarsa lungimiranza nella programmazione delle linee guida e degli interventi strutturali legati al settore, l’unica strada percorribile resta, a mio avviso, quella di una “santa alleanza” fra piccolo e grande commercio, fra ex nemici, accomunati oggi da un nuovo doppio pericolo comune: il virus e il commercio on line. Amministrazioni pubbliche e associazioni di categoria, dovrebbero, fin da subito, stimolare questa “unione sacra”, proponendo soluzioni comuni, per scongiurare un disastro epocale prossimo venturo, che altrimenti rischia di essere inevitabile.

Al di là delle considerazioni sul valore economico e sociale del commercio di prossimità, al di là delle altre considerazioni fatte prima, cioè quelle sul rischio di infiltrazioni mafiose, anche limitandoci al puro discorso occupazionale, proteggere il commercio “fisico”, sia quello di vicinato che quello dei grandi centri, significa infatti proteggere Roma, anche quella Roma che di commercio non vive e che anzi considera la categoria dei commercianti come una massa di evasori che non fa mai lo scontrino.

In una città in cui quasi il 20% degli occupati opera nel settore commerciale (senza contare l’indotto), per un totale che sfiora le 300mila unità, pensare di riassorbire una così ingente massa di lavoratori, magari attraverso le nuove opportunità offerte dall’economia 2.0, è pura illusione. Il giorno in cui tutti i negozi e i centri commerciali dovessero chiudere, non ci sarà Amazon o Glovo che tenga, capaci di ricollocare la massa di commessi, di cassiere, di “store-manager” disoccupati. Roma rischia di diventare perciò una città di paria senza lavoro e senza prospettive, in cui ai negozianti, andrebbero poi ad aggiungersi gli albergatori, le guide turistiche, le maschere dei cinema, dei teatri e dei musei, i tassinari, i personal trainer delle palestre.

Ecco perché il problema del commercio riguarda la città nel suo complesso e non solo un suo settore. Ecco perché serve un cambio di passo radicale e rapidissimo sulla questione, soprattutto da parte di chi ha un ruolo decisionale, con visioni a lungo termine e non di corto respiro. Un cambio di passo che però, purtroppo, all’orizzonte non si scorge e che quindi, quasi certamente, non ci sarà. Anzi, si continua, come se nulla fosse, con politiche miopi e con strane “cure omeopatiche”: il commercio di Roma è in crisi? Apriamo un nuovo centro commerciale! Mala tempora currunt per la città eterna.

[Le foto che accompagnano il testo sono state scattate al Dima Shopping]

One thought on “AAA vendesi commercio romano

  • 22 Gennaio 2022 in 23:50
    Permalink

    Da commerciante ed ex rappresentante da oltre 45 anni e oggi in attività commerciale a Rieti, ritengo questo articolo uno dei più lucidi e articolati commenti alla crisi attuale del commercio sia di quartiere che dei centri commerciali!
    Ma a chi interessa ? Chi vive di politica non ha questi problemi ne’si preoccupa della futura è imminente desertificazione del commercio Romano e delle sue ricadute.Vogliamo parlare anche delle migliaia di piccoli proprietari di immobili commerciali che resteranno chiusi e mai più affittati?
    Grazie del suo articolo

    Risposta

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