Centocinquanta, Porta Pia non canta

Ve li ricordate i festeggiamenti per il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia? Correva l’anno 2011, presidente era Giorgio Napolitano e, tra bandiere tricolori al vento, si moltiplicarono eventi e iniziative per commemorare la nascita del nostro stato unitario. Qualcuno si spinse ad affermare che, da allora in poi, il 17 marzo, giorno della proclamazione ufficiale della nascita della nazione, sarebbe diventato festa nazionale al pari del 2 giugno, per poter essere festeggiato ogni anno in pompa magna.
Ciò non avvenne, anche perché lo spirito patriottico unitario, quello cui aveva dato forte impulso pochi anni prima la presidenza di Carlo Azeglio Ciampi, che aveva imposto bandiere tricolori su tutte le scuole e gli uffici pubblici del Paese, si era andato rapidamente spegnendo, persino a destra, dove il concetto di patria sembrava essere uno dei temi fondanti di quella parte politica. Non è perciò un caso se, a destra, il principale partito di riferimento sia oggi diventato proprio quella Lega che del tricolore si è fatta beffe per decenni.

Al sud poi, il diffondersi del revisionismo storico di stampo neoborbonico ha dato luogo al fenomeno Pino Aprile, il fondatore di un movimento politico meridionalista, nonché l’autore di “Terroni”, un libro (rimasto a lungo fra i best seller) che presenta l’unità d’Italia quasi esclusivamente come una guerra di conquista con l’unico obiettivo di depredare il meridione.
A sinistra il termine patria da molti decenni crea un riflesso automatico di rigetto. C’è da tenere conto che il pensiero socialista e comunista nacque già con una forte connotazione internazionalista più che nazionale. Le lotte antifasciste hanno poi fatto il resto. Qualcuno, anche di recente, ci ha provato, a sdoganarlo fra i figli del fu Pci quel sentimento patrio: è il caso di Stefano Fassina, ex viceministro PD, poi in Sinistra Italiana, creatore di un movimento denominato Patria e Costituzione, il cui tentativo di conciliare temi di orgoglio nazionale e di equità sociale, ha però ottenuto più critiche che consensi. Tanto che di recente, anche per stroncare questo tipo di tentativi, uno dei più noti intellettuali della sinistra romana e nazionale, Christian Raimo, ha deciso di dare alle stampe un saggio esplicitamente e pesantemente antipatriottico, intitolato “Contro l’identità italiana” (Einaudi, 2019).

La foto è di Giampaolo Macorig ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

In questo quadro d’insieme c’è poco da sorprendersi, dunque, se i 150 anni dalla breccia di Porta Pia, Roma li abbia appena trascorsi senza accorgersene. Con l’aggravante che la nostra città è da tempo che non pare accorgersi più di se stessa e del proprio ruolo di Capitale, in nessun frangente. Perciò niente cerimonie in pompa magna. Nessun trillo delle fanfare dei bersaglieri. Nessuno che abbia sentito intonare per le vie dell’urbe il famoso canto, né nella sua versione originaria, decisamente più cruda di quella oggi nota: “Alla breccia di Porta Pia / hanno vinto i bersaglieri / gli zuavi prigionieri / li vogliamo fucilar”, né in quella romanesca, ricca di maggiore afflato fraterno e risorgimentale “O vojantri bersajeri / che c’avete la gamba bbona / fate presto a venì a Roma / a portacce la libbertà”.

Era il 20 settembre 1870. L’ultimo atto del risorgimento stava per compiersi. Roma era pronta a diventare capitale d’Italia.

La battaglia per Roma

Che la conquista di Roma e la sua trasformazione in capitale d’Italia non sia stata un evento così banale e scontato come oggi si potrebbe pensare, ce lo ha ricordato un bel documentario prodotto in vista dell’anniversario, La battaglia per Roma, andato in onda domenica 20 settembre 2020 su Rai Storia.
Dopo il fallimento della Repubblica Romana il potere temporale del Papa sull’Urbe sembrava infatti tornato solido e inattaccabile, difeso anche da una nutrita guarnigione, lasciata fissa a difesa della città dall’imperatore francese Napoleone III.
Vittorio Emanuele II, fresco re d’Italia, era così terrorizzato dall’idea di uno scontro politico e militare con la Francia (all’epoca più importante potenza mondiale) da aver mandato le sue truppe, pochi anni prima, a fermare un primo tentativo di Giuseppe Garibaldi di andare alla conquista di Roma, stoppandolo in uno scontro a fuoco sull’Aspromonte. Ancora nel 1867 aveva lasciato senza aiuti i garibaldini che si erano prodigati in un secondo tentativo, finendo poi sconfitti a Mentana dai franco-papalini. In più, proprio per dimostrare l’abbandono di ogni velleità di rendere Roma capitale del nuovo regno d’Italia, nel 1865 il re sabaudo aveva imposto il trasferimento a Firenze della sede del governo, nonostante le violente proteste dei torinesi. Nulla perciò lasciava presagire quello che gli eventi internazionali dell’estate 1870 resero invece rapidamente possibile.

Foto di MarianOne diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Nel luglio di quell’anno Napoleone III dichiara guerra alla Prussia, con una mossa avventata che segnerà la sua rapida fine politica. I francesi subiscono infatti una clamorosa disfatta militare a Sedan e l’imperatore è costretto alla resa e all’abdicazione il 4 settembre. In Francia nasce la terza repubblica. Roma sta per restare senza il suo gendarme internazionale.

Nuovo scenario europeo

Il primo a intuire che qualcosa stesse rapidamente cambiando fu il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato ed eminenza grigia di Papa Pio IX, che alla fine di agosto del 1870 inviava una lettera accorata a tutte le cancellerie europee, affinché si opponessero “alle violenze dal governo sardo minacciate”. Si noti quel termine “sardo” al posto di “italiano”, per indicare il disprezzo e la mancanza di riconoscimento riservata dal papato al nuovo stato nazionale, ormai esistente da nove anni. Con sorpresa e disappunto di Antonelli, però, nessuna potenza straniera risponde con favore all’appello, affermando tutti che gli affari pontifici non li riguardavano. Non solo: il 10 settembre 1870 Jules Favre, ministro del nuovo governo repubblicano francese, arriva addirittura a dichiarare che la Francia “non può approvare né riconoscere il potere temporale della Santa Sede”. Quello che per decenni era stato il principale alleato e il potente braccio armato del papa, si era dunque improvvisamente trasformato in nemico.

Foto della Penn State University Library diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Ecco allora che Vittorio Emanuele II si trova quasi costretto ad approfittare dell’inatteso scenario che si è di colpo trasformato in un terreno fertile per l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Bisogna però muoversi rapidamente, prima che lo scacchiere internazionale cambi di nuovo. Il governo italiano procede perciò alla costituzione di un “Corpo d’osservazione dell’Italia centrale” il cui comando militare venne assegnato al generale Raffaele Cadorna (padre di quel Luigi Cadorna che 45 anni più tardi avrebbe guidato l’esercito italiano durante la Grande Guerra). Il totale degli effettivi del corpo arriva a superare i 50mila uomini: uno schieramento poderoso, dato che l’intero esercito pontificio, comandato dal generale Hermann Kanzler e privo ormai dell’apporto dei francesi, conta appena 13mila unità.

La lettera al Papa di Vittorio Emanuele

L’8 settembre, il re Vittorio Emanuele II scrive di suo pugno una lettera indirizzata al papa. Nella lettera, il monarca sabaudo “con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di Re, con animo d’italiano”, dopo aver paventato le minacce del “partito della rivoluzione cosmopolita” (si erano infatti avuti, nelle settimane precedenti, dei timidi e fallimentari tentativi insurrezionali di stampo mazziniano e socialista), esplicita “l’indeclinabile necessità per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, debbano inoltrarsi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell’ordine”.
Pio IX, ricevuta la lettera il giorno dopo, risponde al re in modo diplomatico, ma al tempo stesso fermo e quasi sprezzante: “Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a Vostra Maestà piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che Vostra Maestà empia di amarezza l’ultimo periodo della mia vita”.
Fallito quel tentativo di accordo, la parola si trasferisce definitivamente dalla diplomazia alle armi.

All’assalto di Roma

Tra l’11 e il 12 di settembre del 1870 le truppe italiane passano il confine dello stato pontificio, sia da nord, dove occupano Bagnoregio e Viterbo, sia da sud, entrando a Frosinone e Velletri. Il 15 settembre Cadorna invia una lettera al generale Kanzler per chiedergli di acconsentire all’occupazione pacifica della capitale. Kanzler evita però ogni conciliazione e risponde che avrebbe difeso Roma con tutti i suoi mezzi a disposizione. Lo scontro per la città diventa inevitabile.

Venti settembre 1870, ore 5 del mattino: inizia il cannoneggiamento delle mura aureliane. C’è un aneddoto curioso legato all’apertura delle ostilità. Pio IX aveva minacciato di scomunicare chiunque avesse comandato di aprire il fuoco sulla città. La minaccia forse non avrebbe impedito l’attacco, comunque, per evitare problemi, gli italiani decidono (su questa decisione, però, le fonti e gli storici non sono tutti concordi) che l’ordine di cannoneggiamento non venga dato da Cadorna, bensì dal capitano d’artiglieria Giacomo Segre, giovane ebreo, comandante della quinta batteria del nono reggimento, che dunque, non essendo cattolico, non sarebbe incorso in alcuna scomunica.
Il primo punto della città a essere bombardato è Porta San Giovanni, seguito da Porta San Lorenzo e Porta Maggiore. Ma gli sforzi di fuoco maggiori vengono concentrati su Porta Pia, scelta per la sua lontananza da San Pietro e quindi senza rischi di colpire il papa o persone a lui vicine. Poco dopo le ore 9 inizia ad aprirsi una vasta breccia a una cinquantina di metri alla sinistra della porta. Una pattuglia di bersaglieri viene inviata sul posto a constatarne lo stato. Dopo dieci minuti d’intenso fuoco, la breccia è abbastanza ampia da permettere il passaggio delle truppe. La resistenza pontificia è blanda e già alle 10 le truppe di Kantzler alzano bandiera bianca.

Alla fine della giornata restano sul campo circa 40 morti da parte italiana e solo una ventina nel campo pontificio. Per questo molti analisti, successivamente, avrebbero parlato della breccia di Porta Pia come di un episodio quasi insignificante sul piano militare, poco più di una scaramuccia. D’altronde sia Pio IX che Vittorio Emanuele II, a livello politico e d’immagine, avevano forte interesse a che lo spargimento di sangue fosse molto limitato, per non venire additati dall’opinione pubblica internazionale come i responsabili di una carneficina fratricida nella “città santa” di Roma.

Parlare di scaramuccia però è ingeneroso e denota anche una scarsa dimestichezza coi numeri di morti e feriti delle battaglie risorgimentali, numeri ben diversi dalle mattanze che si ebbero in seguito nelle guerre del novecento. La quarantina di caduti italiani a Porta Pia è, infatti, lo stesso numero di decessi che si ebbe da parte piemontese durante una battaglia considerata tra le più “epiche” della prima guerra d’Indipendenza, come quella di Goito. Porta Pia fu dunque, nel bene e nel male, un “normale” conflitto a fuoco fra due eserciti nemici ottocenteschi, senza particolari e significativi “sconti” da parte dell’uno o dell’altro, né scarso spirito belligerante evidenziato dai due schieramenti.

Roma è italiana

Con la presa di Roma, la fase attiva del Risorgimento poteva dirsi conclusa. Lo stato italiano era ormai territorialmente integro (con le sole eccezioni di Trento e Trieste, che però, seppure importanti, non potevano certo competere sul piano simbolico con le recenti acquisizioni di Venezia, conquistata nel 1866 con la terza guerra d’indipendenza e di Roma).
Il 2 ottobre 1870 si svolgeva un plebiscito che sanciva l’annessione di Roma con una maggioranza che oggi si definirebbe “bulgara”: in città i sì furono 40.785 e i no appena 46. Nel resto dello Stato Pontificio si ebbero complessivamente 133.000 sì e 1.500 no, Un trionfo con il 99% di sì, contro un misero 1%. Il 3 settembre 1871 la capitale viene definitivamente trasferita da Firenze a Roma.

Pio IX, rinchiuso in Vaticano, si dichiara però prigioniero politico e comincia un’ostilità feroce contro lo stato italiano che si concluderà solo molti decenni dopo, con i suoi successori e la firma dei patti lateranensi. A nulla vale nel maggio del 1871 l’emanazione della cosiddetta “Legge delle guarentigie”, con la quale l’Italia prova ad assegnare alla Chiesa l’usufrutto dei beni che ora appartengono alla Città del Vaticano e conferisce al papa una serie di garanzie circa la sua indipendenza. La legge non viene mai accettata da Pio IX, che anzi emanò pochi anni dopo il Non expedit, con cui vieta ai cattolici italiani la partecipazione alla vita politica.
D’altronde Pio IX era ancora fermamente convinto (lo resterà fino alla sua morte) che la perdita del suo potere temporale fosse da considerarsi provvisoria, così come era accaduto al suo predecessore Pio VII, che durante il periodo napoleonico era stato allontanato dalla città e poi rimesso sul soglio pontificio con funzioni di Papa e di re, o come era successo a lui stesso nel 1849 durante la repubblica romana.

Quello che Pio IX non sapeva era che invece la plurisecolare storia del “Papa Re” era ormai definitivamente finita, ma ne stava cominciando un’altra, in cui la grandezza papale non era più misurata dalla forza del suo esercito, dei suoi possedimenti, della sua polizia, ma da un potere morale, etico, comunicativo, del tutto immateriale. Un potere “virtuale” come si dice oggi. Un potere di tipo modernissimo, 2.0, la cui storia è ancora in essere e che, da quel 20 settembre 1870, fa la vera grandezza del papato e, di riflesso, della nostra città. Ed è un paradosso scoprire come la più antica delle istituzioni europee ancora esistenti, sia stata anche la prima ad aprire, suo malgrado, la strada alla modernità, a quel potere privo di fisicità e di eserciti, che è la vera caratteristica dei reali grandi poteri (religiosi, economici e politici) del ventunesimo secolo.
E tutto questo grazie anche a un gruppo di bersaglieri entrati, esattamente 150 anni fa, da una breccia aperta a Porta Pia.

[La foto del titolo è di Emanuele ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

 

 

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