L’indagine scatologica: cap. 17

Diciassettesima puntata del romanzo giallo d’appendice “Mario Marco e l’indagine scatologica”. Ovviamente, questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale.

 

15 DICEMBRE

 

Nonostante fosse sulla spiaggia, il posto era decisamente squallido. Un baraccone, ravvivato solo da una scritta al neon azzurrina, “Er Corsaro”.

Era da poco passata mezzanotte, ma nel fine settimana la musica andava a tutto volume, fino a tardi. Fuori, uomini e donne fumavano e chiacchieravano ridendo. Mario Marco gettò uno sguardo all’auto che aveva noleggiato in mattinata, poi entrò. Era arrivato lì pedinando Paolini.

Sulla pista fatta di assi di legno erano in parecchi a ballare. Musica sudamericana. Disposti in cinque file, i ballerini del sabato sera giravano su se stessi, alzavano una mano, poi l’altra, magari inciampavano ma si sbrigavano a tornare in posizione. C’era qualche giovane, ma la maggioranza era composta da quarantenni e cinquantenni.

– È pronta la pasta! – Una donna, con ancora indosso il grembiule, stava portando un vassoio ricolmo di piatti di plastica.

– Che so’? – chiese un uomo coi capelli brizzolati.

– Farfalle al salmone – rispose la cuoca.

– Bone!

La musica adesso era cambiata, ma non il modo di ballare della gente in pista. Si vedeva che frequentavano un corso di danza, e che erano ancora alle prime lezioni.

Mario Marco si era seduto in disparte. Non aveva ancora visto Paolini, ma in compenso vide entrare Claudia. La donna si guardava attorno, in cerca di qualcuno, ma non sembrò vederlo. La cuoca le andò incontro, la salutò e se la portò via, verso la cucina.

Finalmente, ecco Paolini. Il sovrintendente stava parlando con qualcuno, dall’altra parte della sala, mentre i ballerini si disperdevano un po’ alla volta per prendere la pasta e cercarsi una sedia. La musica sfumò. Un uomo, con i capelli pieni di gel, avanzò brandendo un microfono.

– Allora, come va? – l’uomo si rivolgeva al pubblico – Tutto bene? La pasta è buona – cenni di assenso dal pubblico.

– Allora – riprese l’uomo – prima di riaprire le danze, ecco il karaoke del Corsaro – Applausi. – E permettetemi di presentare Augusto, un amico che conoscete tutti – Altri applausi – Augusto, vieni qua. Che ce canti, stasera?

Paolini appoggiò la mano sul microfono – Stasera, ho preparato un po’ di classici. Vi dico solo il primo titolo, Il carrozzone” – Dai ballerini, pur alle prese con le farfalle al salmone, partì una selva di fischi entusiasti.

Le luci si abbassarono, mentre partiva il sottofondo musicale. Paolini chiuse gli occhi e cominciò a cantare per i suoi sorcini, imitando Zero in una maniera passabile. Il carrozzone va avanti da sé… Mario Marco si guardò intorno, in cerca di Claudia. Era seduta su una sedia, accanto a un uomo che non conosceva.

La canzone finì, in un tripudio di applausi e di accendini accesi. La musica si fermò per un istante, poi ripartì. Il sovrintendente ricominciò a cantare. Ora stava imitando qualcun altro. No, non ho detto gioia, ma noia, noia, noia, maledetta noia… Califano! Ecco svelato il mistero di Pulcinella: Luciano, il misterioso ascoltatore di Radio Casa Mia, era lui, il sovrintendente Paolini.

Mario Marco si diresse verso l’uscita. Il suo sguardo incontrò per un attimo quello di Claudia. Si sentì avvampare. Ma la donna si girò semplicemente dall’altra parte.

 

16 DICEMBRE

 

Le sette e mezzo di mattina. Mario Marco si grattò la barba, e si guardò allo specchietto retrovisore.

Che faccia da cazzo, pensò. Aveva passato la domenica chiuso in stanza, in pensione, a dormire e a cercare di organizzare un piano. Come risultato, la sera era rimasto a vegetare davanti alla tv mezzo rincoglionito e la mattina dopo si era svegliato prestissimo in preda a quella che aveva riconosciuto come una crisi di panico. Erano anni che non gli succedeva. Si era alzato prima dell’alba, con lo stomaco che urlava per quanto era vuoto, sudato d’un sudore freddo, e si era fatto una doccia calda. Poi era uscito di casa per respirare un po’ l’aria del mare. Pioviccicava. Alla fine, dopo essersi ripreso, era salito sull’auto noleggiata e si era andato ad appostare davanti alla villa del Geometra, abbastanza vicino da sorvegliare l’ingresso ma sufficientemente distante da non essere notato.

La cassetta delle lettere era sempre lì, immobile, con la bocca spalancata in un moto di paura. O di stupore. Oppure, era solo un enorme sbadiglio, pensò Mario Marco cercando di allontanare il sonno che voleva impadronirsi di lui.

Le sette e tre quarti. Le otto. Le otto e trenta. Le nove meno dieci. Il cancello di casa Merola si aprì. Lì dov’era non lo potevano vedere, ma il commissario abbassò comunque la testa. Era Dolores, la domestica, che usciva probabilmente a fare la spesa.

Le nove meno un quarto. Le nove. Le nove e un quarto. Le nove e venti. Le nove e venticinque. Le nove e ventisei. Le nove e ventisette. Ecco il postino, in sella a un vecchio motorino. Infilò qualcosa nella cassetta, poi si rimise il casco e ripartì.

Il vicecommissario aspettò un minuto poi scese dall’auto, guardandosi attorno. Nessuno in vista, neanche Dolores. Che però era uscita a piedi, dunque non poteva essere andata troppo lontano. E in più, erano già passati quaranta minuti. Bisognava far presto.

Dopo aver indossato un paio di guanti di gomma fine, Mario Marco cercò di estrarre le buste dalla cassetta. Così, però, rischiava solo di strappare la carta. Tirò fuori il mazzo assortito di chiavi che si era portato appresso – un ricordo di quando faceva la scuola di polizia – che lo faceva sentire molto Diabolik. Alla quarta prova ebbe fortuna.

Rimontò veloce in auto, e mise in moto. Stava pensando di tornare alla pensione, poi però cambiò idea. Spense il motore e si mise a esaminare le buste. Una fattura commerciale, quella del telefonino. Una cartolina, firma illeggibile, da Nizza. Una lettera. Per la filippina. Da Umbertide, provincia di Perugia. Sicuramente il figlio. E poi, quella lettera. Un’altra. Stesso formato. Uguale a tutte le precedenti. Inconfondibile anche senza bisogno di aprirla. E infatti Mario Marco non la aprì, si limitò a tastarla e poi la ripose nel vano sotto il cruscotto.

Il commissario guardò l’orologio. Le nove e quaranta. Rumore di un’auto. Ancora la Saab di Bordone. Per un istante, Mario Marco ebbe l’impressione di essere pedinato. Ma Bordone non era solo. La sua auto era seguita da un’altra, una Bmw. L’auto di D’Artibale.

Il cancello automatico si aprì e le due auto entrarono nel cortile.

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– Ti ho visto, l’altro giorno – disse Mario Marco.

– Dove? – chiese Milva.

– Eri sdraiata nell’auto di Bordone. Dormivi.

– Ah, sì? Non mi ricordo. E tu come stai? – Milva sembrava circondata. Mario Marco aveva l’impressione che ci fosse qualcuno, con lei, e che la ragazza non volesse fargli capire che stava parlando con lui.

– Così così. Vorrei vederti. È possibile?

–  Quando?

– Quando vuoi tu, ma non tra un mese.

– Mmh. Perché non mi richiami?

– Ti ho già chiamato un sacco di volte, ma non mi hai risposto. Ma a te ti va, di vedermi? Volevo anche domandarti un po’ di cose…

– Cosa? – Chiese lei.

– Lo sai.

– Ah, sì. Vabbe’, si sente male. Mi richiami?

– Veramente…

– Ciao. Stai bene, eh?

La ragazza lo aveva salutato, ma non aveva riattaccato. Chissà se l’aveva fatto apposta. Il vicecommissario restò all’ascolto. Mario Marco sentì un’altra voce, quella di un uomo.

– Chi era? – disse Bordone.

– Stefano, uno che mi fa la corte. Non lo conosci – rispose la ragazza.

– E com’è? – chiese l’uomo.

– Carino. Secondo me, piacerebbe pure a te.

– Quelli che ti fanno la corte di solito sono degli stronzi – tagliò corto Bordone.

Silenzio. Un silenzio disturbato da scariche elettriche. I due erano in auto, probabilmente.

– Hai della roba? – chiese Milva.

– Sai che in macchina non la porto.

– Be’, non c’è qualche amico tuo che ce la può dare?

– Adesso? Non puoi aspettare mezz’ora, eh?

– E dai, non t’incazzare… È che dici mezz’ora e poi passano per lo meno due ore. Fai sempre così.

Silenzio. Chiedigli qualcosa di interessante, cazzo, pensò Mario Marco.

– Di che avete parlato, te e mio padre, col poliziotto? – Be’, quello era decisamente qualcosa di interessante. Il “poliziotto” in questione era di sicuro D’Artibale.

– Da quando ti interessa quello che fa tuo padre? – chiese Bordone.

– Mi interessa quello che fai tu – rispose Milva.

– Niente di importante.

– C’entra quel vecchio?

– Sì.

– Vorrei ammazzarlo, quello schifoso. Se penso che mamma…

La linea era caduta. Mario Marco riattaccò il telefono. Doveva saperne di più.

 

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