Torneranno i cortili di Prati?

Sono nato circa sessant’anni fa in un palazzo ai margini del quartiere Prati, a Roma, giusto sotto la cupola di San Pietro. E qui sono tornato a vivere, dopo molti pellegrinaggi per la mia città. Perdonatemi: giacché mi appresto a farvi viaggiare nel tempo e non nello spazio, queste informazioni sono meno inessenziali di quanto non paia a prima vista.

[Questo post è stato pubblicato originariamente su Fogli e Viaggi, un blog di racconti di viaggio fondato da Vittorio Ragone]

I caseggiati di Prati, a Roma, hanno caratteristiche significative e s’affacciano tutti su uno spazio condiviso: i cortili. Il quartiere venne costruito tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento per ospitare le caserme dell’esercito del nuovo Regno d’Italia e, soprattutto, le residenze degli ufficiali e tutti quei civili che vivevano delle attività di supporto alla vita militare. Case popolari di un secolo fa. Grazie a una straordinaria speculazione immobiliare, il quartiere sorse su quelli che erano i “Prati degli Strozzi”, una famiglia di palazzinari romani legati al clero: per farsi perdonare la detronizzazione di papa Pio IX, il giovane Re Umberto I, il primo che abbia regnato da Roma, ridisegnò la città comprando i terreni di due emissari della Chiesa. A nordovest, appunto, vennero sistemate caserme e servizi, mentre per l’edilizia residenziale lo Stato comprò dalla Chiesa i terreni tra la Stazione Termini e Campidoglio. Intermediario dell’affare fu un certo Domenico Costanzi che se la cavò donando alla cittadinanza un sontuoso teatro alle spalle di Via Nazionale (la direttrice di questa spina urbanistica) che oggi porta il suo nome e ospita il Teatro dell’Opera di Roma.

I caseggiati di Prati, a Roma, hanno caratteristiche significative e s’affacciano tutti su uno spazio condiviso: i cortili

Come che sia, la cementificazione dei Prati degli Strozzi prevedeva una memoria verde all’interno di ogni caseggiato: i cortili di Prati sono nati così, con grandi abeti e magnifiche magnolie sistemati nel perimetro interno dei condomini, al riparo dagli sguardi delle strade. Sennonché, la vita di cortile in questa zona di Roma assume una particolare importanza. Perché, in genere, se le camere da letto e di rappresentanza affacciano sulle strade, le cucine e i tinelli dànno sui cortili appunto, e a essi forniscono vita e rumori. Il cinema ha molto ricamato su questo elemento (pensate al caseggiato di Una giornata particolare di Scola, che tuttavia è in un’altra zona di Roma): il più bel ritratto di un cortile di Prati è La banda degli onesti, con Totò, Peppino e Giacomo Furia per i quali Age e Furio Scarpelli costruirono una storia di condominio piena di abitudini, rumori, broccoletti e patate condivise. Lo girarono qui accanto, in Viale delle Milizie, e in una famosa scena girata sulla lavanderia in terrazzo si ammira proprio il profilo di San Pietro.

Insomma, un viaggio nel tempo attraverso questa vita e questi rumori è quel che vi propongo, per capire, attraverso i suoni da cortile, come siano cambiate le nostre abitudini quotidiane.

Da ragazzino giocavo sulla loggetta prospiciente la cucina di casa e studiavo in tinello, per questo so bene che rumori si sentissero nell’ampio cortile del mio caseggiato. Ricordo soprattutto voci femminili che intonavano canzoni d’amore. Mentre quelle maschili per lo più, la sera, riverberavano arie d’opera: se conosco perfettamente Oh mio babbino caro di Puccini e Libiamo! di Verdi è per via di quelle voci. Ma udivo anche tutte le canzoni di Sanremo, dal cortile: la mia competenza in materia di canzonette anni Sessanta la devo alle donne che a fine mattina intonavano alla perfezione Domenico Modugno, Claudio Villa e Gianni Morandi come se fossero espressione della medesima cultura popolare.

La mattina, poi, almeno una volta alla settimana entrava nel cortile un tizio su un triciclo con un gran cassone sul davanti: «Stracciarolo!», gridava. Comprava stracci. Come quell’altro che, più tardi, veniva a comprare vetri e bottiglie: «Bottijiaro!», annunciava (lo stesso citato dalla Banda degli onesti, per dire). Mestieri umili, come si diceva un tempo, ma che venivano vissuti con straordinaria dignità e con grande rispetto erano considerati dagli altri, dai “clienti”. «È arrivato il signor Bottigliaro», mi diceva sussiegosa mia madre, come dice Totò nel film.

La mattina, poi, almeno una volta alla settimana entrava nel cortile un tizio su un triciclo con un gran cassone sul davanti: «Stracciarolo!», gridava

Poi, siccome la mia casa era prossima al mercato Trionfale, di buon mattino, prima di andare a scuola, a seconda della disposizione del vento udivo le perorazioni dei mercanti: «Quattro sedani cinquanta liri!», «Che è, oggi, ‘sto nicche-nacche?»,«Che d’è ‘sta puzza de micragna?». Poi uscivo e, per andare a prendere l’autobus per la scuola, passavo davanti a quelle voci e le identificavo, le salutavo, fino a diventarne amico.

Nel complesso, dominavano l’arte popolare e la riservatezza: i rumori erano umani e arrivavano alle mie orecchie solo perché le finestre erano aperte (d’estate e d’inverno, immancabilmente, perché l’aria andava continuamente “purificata” pure in assenza di covid). Non ricordo una sbavatura né un la-la-la (tranne quelli di mia madre che proprio non ne voleva sapere di imparare i testi delle canzoni): donne e uomini del mio caseggiato sapevano tutto a memoria, alla perfezione; nessuno stonava (per quanto io potessi capire). E, soprattutto, nessuno se ne vantava su Facebook né poi andava da Maria de Filippi a inseguire sogni inutili: tutti talenti naturali. Forse.

Oggi il mio cortile risuona di altri rumori, con cadenze orarie sulle quali potrei rimettere l’orologio senza rischio.

Alle sette della mattina comincia l’inquilina del piano terra, avanti negli anni e sorda, che ascolta la messa in tv a un volume tale che tutto il caseggiato può legittimamente prendere la benedizione. All’inizio mi faceva tenerezza, ora sono persuaso che tanto, comunque, a forza di far morire gente in mare andremo tutti all’inferno comunque. Non c’è messa in tv o dal vivo che ci possa salvare.

Alle otto, poi, risuona il tg della tv di un’altra vicina. Forse sono snob, ma da molti anni non ho la tv e ignoro la recitazione corrotta delle notizie da parte delle televisioni. Così credo: perché in realtà ogni mattina il mio cortile mi sciorina l’abecedario delle bugie trasmesse dalla tv e mi mette a parte di un orrore al quale tutti abbiamo fatto l’abitudine. Rumori tecnologici che continuano ad aggrapparsi alle pareti del cortile e alla splendida magnolia che lo domina al centro, grazie all’ascolto devoto dei vicini che passano da un talk show a un pessimo ricettario con assoluta normalità.

Oggi il mio cortile risuona di altri rumori, con cadenze orarie sulle quali potrei rimettere l’orologio senza rischio

Poco dopo le otto, comunque, finito il tg prende il sopravvento un altro rumore. Il portiere del palazzo di fronte ritiene di governare i giardini di Versailles e dunque ogni mattina taglia il prato, pota gli alberi e, soprattutto, scaccia verso la strada le foglie caduche grazie a una macchina a benzina che sputa aria (i vecchi rastrelli son roba demodé). Lo fa rumorosamente, appunto, fregandosene dei pensionati che languiscono nel letto. E, quindi, per l’intera mattina è tutto un ron-ron che si accavalla alla voce degli anchor-man che distillano cazzate come se fossero sentenze di Aristotele.

All’una e mezza, immancabilmente, i manovali addetti al restauro degli appartamenti (operoso Paese, il nostro) attaccano a tagliare putrelle e piastrelle. Un delirio fastidioso: la simpatica vecchina del piano terra (la sorda che ascolta la messa al massimo volume) comincia a urlare che a quell’ora no, non si possono fare rumori e il frrr-frrr del frullino per un po’ tace, ma solo un po’.

A mezzo pomeriggio, prima che alle 18 il canale Tv2000 su cui è sintonizzata la mia vecchia devota cominci a trasmettere il rosario da Lourdes (sono diventato esperto di palinsesti religiosi), dall’altro capo del cortile parte il concerto. Un condomino che, credo, fa parte di un coro, ogni pomeriggio ascolta le registrazioni del suo complesso: un repertorio notevole che va da Verdi a Toto Cotugno passando per Bella ciao e Besame mucho eseguito rigorosamente a cappella da un coro di dilettanti. Giuro che è la cosa migliore della giornata. In tempi di lockdown, va da sé, l’esibizione era introdotta dall’Inno di Mameli che però, da maggio in poi, è sparito dal repertorio.

E così, rapidamente, si scivola verso la sera quando, prima del tg delle 20.30, la mia vecchina sorda ascolta le domande di stupidissimi quiz che tanto piacciono ai programmatori delle nostre televisioni. Poi restano solo i segnali delle prime serate tv: risate finte, applausi finti, spari finti.

Già da febbraio scorso il covid ha fermato ogni attività teatrale (tutto ha riaperto, nel nostro paese, dalle chiese alle discoteche, salvo il teatro di cui pare non freghi niente a nessuno): ebbene, nel nostro cortile c’era un piccolo teatro. La sera, verso le nove e poi intorno alle dieci e mezza, per l’intervallo, finalmente si udivano dalle finestre voci umane.Un brusio diffuso pieno di soddisfazione. Miracolo! Era un confortante chiacchiericcio di donne e uomini in carne e ossa in attesa di emozionarsi con il teatro. Ecco, quei rumori che il covid mi ha rubato erano gli unici che mi sembra ricolleghino l’oggi a ieri. Ma chissà se quel teatrino riaprirà, quando il covid sarà sconfitto?

(NICOLA FANO, 1959. Vive tra Roma e Torino dove insegna all’Accademia Albertina di Belle Arti l’astrusa materia di Letteratura e filosofia del teatro. Da quarantacinque anni va a teatro quasi tutte le sere e, giacché è recidivo, alla storia del teatro ha dedicato i numerosi libri che ha scritto. Detesta il calcio, ma gioca a pallacanestro: quando smetterà di farlo, con ogni probabilità, morirà)

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