La “pacchia” è finita?

“È finita la pacchia a casa…” così le ha detto il proprietario della piccola azienda dove lavora. Lei ha un ruolo amministrativo che può tranquillamente svolgere senza andare in ufficio e i risultati di quanto produce sono visibili. Possono essere “misurati” con una certa oggettività. Tra l’altro Giovanna mi assicura che rimanendo a casa, spesso le è capitato di essere più veloce e di portare a termine un numero maggiore di pratiche. Tutto ciò non ha cambiato in nulla l’opinione del suo datore di lavoro che vuole esercitare un potere di controllo ed è convinto che lavorare da casa è da “furbetti”.

Giovanna mi racconta che le avrebbe fatto comodo in questo periodo restare in smart working. Ha una figlia piccola, otto anni. I centri estivi hanno delle capacità ridotte e insomma, non ha trovato un posto. Sta quindi cercando una soluzione. Rimango sorpreso, pensavo che l’indicazione generale fosse quella di favorire, lì dove è possibile il lavoro da casa, quello che ci siamo abituati a chiamare “smart working” ma che in realtà è telelavoro. Invece non è così, perché parlando con diverse mamme (sì, pochissimi uomini, i papà non c’erano proprio), in attesa di riprendere le loro figlie da un corso di musica, scopro che la realtà è un’altra.

Foto di Nenad Stojkovic diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Quelle con cui scambio qualche battuta mi riferiscono situazioni simili. Però la storia di Giovanna non finisce con l’obbligo di tornare in ufficio, con le controindicazioni che questo produce per lei e per la mobilità romana. Provo a chiederle qualcosa in più. Scopro in questo modo che è stata in cassa integrazione, senza per questo smettere di lavorare normalmente: lo Stato pagava per una interruzione di attività lavorativa che in realtà non è mai avvenuta. Una truffa, in pratica. Le chiedo per quale ragione ha accettato una tale situazione. Mi guarda smarrita, gli occhi non sanno bene dove fermarsi. Aveva timore che se si fosse rifiutata avrebbe potuto rimetterci, avrebbe potuto essere ricattata, avrebbero potuto metterle i bastoni tra le ruote. Aveva paura di perdere il posto di lavoro. Lei dico che capisco. Capisco.

A fianco di Giovanna, c’è Michela. Lei lavora con una ditta al centro di Roma, ha avuto non poche difficoltà a far comprendere al suo capo che a casa non è che lavorasse meno. Finito il periodo di blocco rigido, la volevano a tutti i costi in ufficio. “Si torna a lavorare…”, ha comunicato il proprietario. Lei ha sbarrato gli occhi, si è sentita preso in giro. Insieme ai suoi colleghi, ha fatto i salti mortali per cercare di rimediare ai problemi che l’emergenza coronavirus aveva provocato, con un fatturato che in quel mese aveva comunque retto egregiamente. Lodi pubbliche per i risultati raggiunti e poi… e poi tutto quell’impegno scompare di fronte alla prospettiva di tornare nelle quattro mura consuete, senza una motivazione dirimente. Le spiegazioni servono a poco, non riusciva a farsi capire. Davanti a sé, Michela ha trovato una barriera. Pur di far tornare in ufficio i dipendenti, la ditta per cui lavora ha affittato dei posti auto in un parcheggio, dato che i mezzi pubblici non garantiscono un servizio adeguato.

Per Michela è stato umiliante, lo si vedeva dalle espressioni del suo volto. C’è rimasta male, perché con queste scelte vengono abbattuti alcuni elementi che determinano il benessere del lavoratore: l’autonomia, la competenza e la relazione. Del resto in questi giorni il sindaco di Milano Sala ha dichiarato: “È ora di tornare a lavorare”. E il giuslavorista Pietro Ichino? “Nella maggior parte dei casi lo smart working è stata una vacanza pressoché totale, retribuita al 100%”.

L’etica del controllo ha infuriato dentro le teste di capi e capetti e manager di impresa in questi mesi. Alessandra, che lavora in una multinazionale come analista è stata sommersa da continue videoconferenze dei suoi superiori, arrivando a fine giornata stremata. Ore e ore di scarsa utilità, che però dovevano essere occupate, tanto da far scomparire il confine tra il tempo da dedicare al lavoro, da quello da mettere a frutto per la propria vita personale. Luigi, in una società farmaceutica, ha vissuto la medesima esperienza. Videoconferenze che servivano a occupare il tempo e ancora una volta a controllare il lavoratore. Entrambi non ne potevano più, per loro queste continue chiamate video sono state un’invasione, dunque sperano presto di poter tornare in ufficio, dove l’ansia di controllo tornerà nella norma.

Le analisi di Francis Green, dello University College di Londra, mostrano come la mancanza di autonomia sul posto di lavoro rappresenti la principale spiegazione per il calo della produttività e della soddisfazione professionale nel Regno Unito (Demanding Work. The Paradox of Job Quality in the Affluent Economy. Princeton University Press, 2006). Qui l’articolo completo di Vittorio Pelligra che cita lo studio.

Mi fermo qui, ma di storie me ne sono state raccontate altre, del medesimo tenore. Storie che hanno come scenario il lavoro privato. Non è lo stesso nella pubblica amministrazione, pur dovendo andare incontro ai limiti della strumentazione tecnologia (utilizzare i propri pc, i propri telefoni cellulari, e le connessioni domestiche a Internet).  Secondo un’indagine di FPA, società del Gruppo Digital 360, l’88% dei dipendenti pubblici che ha lavorato in questo periodo in modalità “smart” giudica l’esperienza positivamente e per la maggioranza il lavoro da casa deve essere integrato con dei rientri in ufficio organizzati e funzionali.

In questo caso, come in molti altri, non serve dividerci da tifosi tra i favorevoli e i contrari. Tra questi ultimi già sento coloro che lamentano i locali vuoti all’ora di pranzo, per l’introduzione del lavoro da casa o chi per ragioni ideologiche avversa ogni ipotesi del genere, perché in questo modo lo sfruttamento lavorativo arriverebbe dentro la propria abitazione. Le soluzioni vanno cercato mettendo sul piatto della bilancia i diversi elementi. Insieme al benessere dei lavoratori, alla capacità produttiva, c’è da prendere in considerazione – per quanto riguarda Roma – il cambiamento per li spostamenti in città. Con migliaia di persone non più costretti a prendere la propria auto o i mezzi pubblici, riducendo non solo il traffico, ma anche l’inquinamento.

[La foto del titolo è di Nenad Stojkovic]

One thought on “La “pacchia” è finita?

  • 23 Giugno 2020 in 13:11
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    Interessante l’argomento. Pensare a soluzioni “ecologiche” sarebbe un obbligo

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