Diritto per tutti a manifestare in sicurezza

Roma è la Capitale, e anche se qualcuno continua a stupirsi, è normalissimo che sia la sede di tante manifestazioni e anche che tante persone contestino i disagi provocati dai cortei al traffico: è una dialettica democratica.
Sarà così anche dopo il Covid, nei prossimi mesi. Con l’aggiunta che da una parte bisogna evitare che l’epidemia diventi un motivo di comodo per impedire cortei e iniziative di piazza, dall’altra occorre che chi manifesta lo faccia in sicurezza, perché gli assembramenti possono favorire i contagi. E anche se non fosse più così col caldo  – ma è stato certamente così nei mesi scorsi – è comunque meglio adottare precauzioni.

Ma serve anche un po’ di onestà intellettuale da parte degli schieramenti: non soltanto i partiti, ma anche i cittadini che sostengono questa o quella posizione, questo o quel leader. Non si può, e quasi sempre solo sulla base di immagini dei media – che possono essere ingannevoli – inveire contro chi manifesta per ragioni diverse dalle proprie perché “così si rischia di favorire i contagi”.

Nei giorni scorsi, Roma è stata teatro di almeno quattro diverse manifestazioni, le prime vere iniziative del genere dopo il lockdown. La prima, il 30 maggio, con i “gilet arancioni” del ex generale dei carabinieri Pappalardo nel cuore istituzionale della città, che protestavano, in sostanza, contro la “falsa” pandemia e le misure del governo. Un centinaio di persone, dicevano le cronache, ma rumorose e appariscenti (a Milano però l’exploit era stato molto più forte, anche per numero di manifestanti).
Nella stessa giornata dovevano manifestare anche i lavoratori “autorganizzati” dello spettacolo, per protestare contro l’abbandono quasi totale del settore: ma sono rimasti praticamente invisibili, anche per il clamore dato dai media agli “arancioni”.
Poi c’è stato il 2 giugno, con i partiti del centrodestra a contestare il governo a piazza del Popolo, con quello che alla fine è diventato un corteo vero e proprio, e con un ritorno di fiamma degli “arancioni”.

Via del Corso, 2 giugno, foto diffusa da Polisblog

Sabato 6 giugno è stato il turno del raduno di estrema destra al Circo Massimo, finito in rissa interna e scontro con la polizia. Infine, domenica 7 giugno, la manifestazione, di nuovo a piazza del Popolo, contro la violenza razziale negli Stati Uniti, probabilmente l’evento più animato.

Si può discutere del contenuto politico delle diverse manifestazioni, perfino di quella organizzata da neofascisti e ultras, che sembrava più un ritrovo di giovanotti e meno giovani ansiosi di sfogarsi. E sì, si può discutere anche del ruolo di “sfogatoio” che i cortei – tutti i cortei – possono assumere. Soprattutto dopo mesi di lockdown e con una crisi dagli impatti psicologici, sociali ed economici così impressionanti. Manifestare è anche un modo per far sbollire in qualche modo la rabbia, insieme ad altri. 

Un po’ meno lungimirante è chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per disperdere quello che si considera un “assembramento” altrui.
Abbiamo bisogno di regole condivise e di responsabilità. E quindi di un controllo, di un’applicazione di tali regole che sia a prova di partigianeria. Non serve invece un ping pong dove ci si accusa di favorire il virus o di fare doppiopesismo.
Finché non saremo sicuri che il coronavirus sia scomparso, il modello delle manifestazioni dovrebbe essere quello di Tel Aviv, in Israele, ad aprile, quando molte persone scesero in piazza contro il governo Netanyahu, stando ognuna a due metri di distanza e con la mascherina.
E abbiamo bisogno di un’informazione corretta, verificabile. Perché fare foto a una piazza può ottenere un effetto molto diverso. A Tel Aviv, quella sera, non c’erano così tante persone, in fondo – almeno secondo i nostri criteri – ma era impressionante la disposizione geometrica e l’uso delle luci. E l’impiego dei droni per fare le riprese dava l’esatta percezione di quello che stava accadendo.
Se invece continuiamo a giustificare i comportamenti in base alle nostre preferenze, non facciamo un buon servizio neanche alla nostra causa.

Piazza del Popolo, 7 giugno, foto di ZDG

 

Piazza del Popolo, 7 giugno, foto di LC

Chi ha partecipato alla manifestazione del 7 giugno per ricordare George Floyd e condannare la violenza istituzionale contro gli afroamericani ha riferito che si sono mantenute le distanze e le regole di sicurezza. Ma alcune foto lasciavano intuire un altro scenario. E probabilmente lo stesso può essere accaduto alla manifestazione del centrodestra del 2 giugno (condannata sulla base di foto).
Ovviamente, è normale che chi è convinto che il Covid non esista non si curi di stare a distanza, soprattutto da chi lo pensa come lui (e qui parliamo dei “gilet arancioni”). Ed è anche comprensibile il meccanismo psicologico per cui si tende a sottovalutare il potenziale pericolo virale da parte di amici e conoscenti.
Ma se vogliamo continuare a esercitare il diritto di manifestare, cerchiamo di essere onesti e responsabili.

 

[La foto del titolo, della manifestazione di Tel Aviv, è stata diffusa da Gabriella Colarussa su Twitter il 19 aprile 2020]

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