Se in metro si sta a un metro

Potrebbe essere la Caporetto del trasporto, non solo pubblico ma anche privato. Diversi segnali sembrano infatti prospettare una imminente debacle, disordinata e potenzialmente catastrofica, di cui, proprio come per la rovinosa battaglia di un secolo fa, le responsabilità andrebbero poi ricercate a vari livelli, a partire dai massimi vertici della catena di comando. Parliamo della cosiddetta “fase due” romana e nazionale, cioè del momento in cui, poco a poco, le attività cominceranno a riaprire e i cittadini torneranno a spostarsi da un luogo all’altro della città.

Foto di Altotemi diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

A spostarsi, sì, ma come? Se quotidianamente circa un milione di romani, prima del lockdown, utilizzava il servizio di trasporto pubblico per i propri trasferimenti, oggi bus, treni e metropolitane risultano essere tra i luoghi più rischiosi, fonte di possibile contagio, di contatti troppo ravvicinati fra le persone, di inevitabili assembramenti.
Come far fronte al problema? Chiudendo il servizio pubblico e spostando tutto sul sistema di trasporto privato? In una città come la nostra, già al collasso per questioni legate al traffico fin da prima della pandemia, significherebbe paralizzare Roma. Senza considerare che c’è chi un mezzo privato non ce l’ha (a cominciare dagli adolescenti) e che le attuali disposizioni vietano di trasportare più di due persone per automobile, con la conseguenza di un ulteriore aumento dei mezzi in circolazione.

“È il momento di spingere su tutte le forme di sharing mobility, dagli scooter alle bici, fino anche alle auto, seppure con qualche attenzione maggiore. Se poi Roma avesse, come Parigi o Berlino o Copenaghen, una rete ciclabile di centinaia di chilometri, ora con la bella stagione potrebbe rappresentare un’alternativa per gli spostamenti o almeno per una parte di questi. Realizzare una rete continua e sicura dove circolare in bici o con piccoli mezzi elettrici, come i monopattini, rimane una priorità”. Per Edoardo Zanchini, urbanista e vicepresidente nazionale di Legambiente, la strada sembra obbligata: l’unica possibile soluzione sono le due ruote.

“È il momento di spingere su tutte le forme di sharing mobility, dagli scooter alle bici, fino anche alle auto, seppure con qualche attenzione maggiore”

È una indicazione che pare voglia seguire anche la sindaca Virginia Raggi: “Nella ripresa, per evitare che le nostre città siano invase dalle auto, stiamo lavorando su alcune direttrici comuni: privilegiare per chi può il trasporto attraverso bici o monopattini – ha dichiarato la Raggi alcuni giorni fa – Stiamo lavorando per realizzare rapidamente delle corsie ciclabili. Vogliamo incentivare la mobilità dolce anche incentivando l’acquisto di bici elettriche. Dobbiamo scoraggiare il traffico privato perché, pur rimettendo a regime il trasporto pubblico, rischiamo di essere invasi dalle auto”.

Foto di Olga E Zanni diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Al momento, però, di concrete disposizioni in tal senso ancora non ce ne sono, anche se i progettisti del Comune – a quanto risulta a Roma Report – hanno presentato diverse proposte per piste ciclabili d’emergenza.
Atac, intanto, cerca di predisporre un piano: distanziamento sui mezzi e nelle stazioni, contingentamento degli ingressi, obbligatorietà di guanti e mascherine, predisposizione di dispenser per disinfettanti su tutti gli automezzi in circolazione, sanificazione periodica degli spazi pubblici. Quando però, una settimana fa, si sono avviati i test relativi a questi nuovi sistemi, nonostante al momento usufruiscano dei mezzi pubblici solo meno del 10% dei precedenti utenti, già all’esterno della stazione di San Giovanni si sono create code e una certa confusione.
Il rischio che si è dunque palesato è che, con i sistemi che si stanno predisponendo, il problema venga semplicemente spostato dall’interno dei mezzi pubblici all’esterno delle fermate del bus e delle metropolitane, dove potrebbero crearsi assembramenti tali da risultare ancora più rischiosi di quelli possibili sugli automezzi.

Il rischio che si è dunque palesato è che, con i sistemi che si stanno predisponendo, il problema venga semplicemente spostato dall’interno dei mezzi pubblici all’esterno delle fermate del bus e delle metropolitane, dove potrebbero crearsi assembramenti tali da risultare ancora più rischiosi di quelli possibili sugli automezzi

Forse è anche per questo che Roma Mobilità, più volte sollecitata da Roma Report a fornire le informazioni relative al nuovo piano emergenziale dei trasporti, ha sempre con garbo rimandato l’invio di tale “decalogo”. La realtà è che, all’interno delle aziende pubbliche e private che si occupano di trasporto, a meno di una settimana dalle riaperture previste per la “fase due”, non vi sono ancora certezze, si attende di capire, di fare test, di modificare in corso d’opera, perché nessuno dei piani emergenziali predisposti sembra risultare davvero convincente nella sua efficacia.

Foto di Altotemi diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Per ora ci si è limitati a installare a terra, in alcune stazioni e nei metrò, quelle strisce e quei bollini blu che forse molti di voi hanno avuto modo di vedere su alcuni giornali o nei servizi dei tg: una segnaletica che, come avviene per gli ospiti degli studi televisivi, indica i soli punti in cui sarà possibile sostare, a distanza di circa un metro gli uni dagli altri. Il resto si vedrà. È comunque già evidente che queste misure di distanziamento riducono a circa un ottavo la capacità massima di trasporto dei passeggeri: 100.000, massimo 200.000 persone, a fronte della necessità di trasportarne 1 milione. E i restanti 800.000?
Per la Regione Lazio, scrivono i giornali, la percentuale di passeggeri dovrebbe essere portata al 50%: in questo caso resterebbero comunque fuori 400.000 persone, anche se va considerato che molte persone continueranno con telelavoro da casa e che comunque le scuole non riapriranno fino a settembre.

“Roma ancora dovrebbe aumentare l’offerta di trasporto pubblico su ferro e su gomma, con più treni e autobus in circolazione – è ancora Edoardo Zanchini a parlare – perché il problema di Roma è la crisi di Atac e l’inadeguatezza del trasporto su ferro. Mentre si interviene comprando treni e autobus, potenziando il servizio e costruendo nuove linee e piste ciclabili, si dovrebbe spingere un’innovazione che nelle altre città europee sta cambiando il modo con cui si guarda alla mobilità. In quelle città oggi è possibile informarsi in tempo reale della situazione di traffico, dei problemi, calcolare le combinazioni di mezzi pubblici e di sharing mobility più efficaci, grazie agli smartphone che oramai quasi ogni cittadino possiede. Sarà fondamentale avere anche da noi arrivare a disporre di dati altrettanto affidabili per aiutare le persone a muoversi nella città.
Al tempo del Coronavirus può anche essere un modo per mandare allerta su stazioni molto frequentate e quindi risolvere problemi di congestione e pericolo”.

Sembra l’uovo di Colombo. Ma se creare o potenziare una App è qualcosa che può essere fatto in tempi brevi e con costi relativamente limitati, un serio potenziamento dei mezzi in circolazione prevede tempi molto più lunghi: bandi per l’acquisto degli automezzi, fornitura, test relativi, assunzione di nuovi autisti. Tempo stimato: un anno nella migliore delle ipotesi, due o tre in una prospettiva più realistica. Per non parlare dei costi. Chi può sostenere le spese per decuplicare la flotta di automezzi, quando Atac aveva già un bilancio fallimentare prima del virus e oggi ha visto perdere il 95% delle entrate provenienti dalla vendita dei biglietti?
Se poi, fino a poco tempo fa, si parlava spesso di privatizzazione delle aziende di trasporto pubblico come possibile soluzione per fare fronte al loro dissesto economico, oggi anche questa strada sembra in salita. Quale privato avrebbe interesse a investire in un settore che sembra destinato al collasso o comunque a un forte ridimensionamento?

Foto di Max Sat diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Chi può sostenere le spese per decuplicare la flotta di automezzi, quando Atac aveva già un bilancio fallimentare prima del virus e oggi ha visto perdere il 95% delle entrate provenienti dalla vendita dei biglietti?

E così, a pochissimi giorni dalla fine della prima fase del lockdown, ecco che Arrigo Giana e Andrea Gibelli, presidenti di Agens e Asstra, le due associazioni nazionali delle aziende che operano nel settore pubblico locale, di cui fa parte anche Atac, scrivono una lettera al governo, per esprimere “preoccupazioni in merito alla praticabilità di alcune misure previste”.
L’allarme lanciato non è di poco conto: “Il distanziamento ipotizzato di un metro per la fase due limita la capacità del sistema dei trasporti di persone al 25-30% del numero di passeggeri trasportati in condizioni di normalità – scrivono Giana e Gibelli – l’offerta di trasporto sarebbe assolutamente insufficiente, anche a fronte di una domanda che, prevedibilmente, sarà inferiore rispetto alla situazione pre-emergenza Covid-19″.

“Il distanziamento ipotizzato di un metro per la fase due limita la capacità del sistema dei trasporti di persone al 25-30% del numero di passeggeri trasportati in condizioni di normalità… l’offerta di trasporto sarebbe assolutamente insufficiente, anche a fronte di una domanda che, prevedibilmente, sarà inferiore rispetto alla situazione pre-emergenza Covid-19″

L’attacco è proprio contro quel vincolo di un metro sinora ipotizzato come indispensabile misura di contenimento all’interno dei mezzi pubblici. A loro detta, infatti, così come in parte verificato durante i primi test, questo vincolo potrebbe generare: “sovraffollamento a ridosso delle aree di attesa delle stazioni e alle fermate, ottenendo un effetto contrario a quello desiderato, con assembramenti non controllabili e pericolosi per la salute delle persone, oltre che potenziali problemi di ordine pubblico”. Quindi niente distanziamento dentro i mezzi, bensì solo un: “criterio incardinato sull’obbligo di utilizzo delle mascherine da parte degli utenti, rigorosamente applicato, coerentemente, peraltro, a quanto disposto nel protocollo generale per la riapertura delle imprese”.

Tutto da rifare, quindi? Mancano pochi giorni al 4 maggio e la confusione sembra ancora totale. I dubbi sono mille. L’impreparazione con cui si arriva a quella data è preoccupante.

[La foto del titolo è di Carlo Leonardini ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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