Spiaggiati

Sarà che l’estate si avvicina, sarà che in questa lunga e forzata permanenza fra le mura delle nostre abitazioni si fa strada il bisogno di uscire, almeno con la fantasia, in un luogo aperto e privo di confini come è il mare. Fatto sta che, da qualche giorno, le cronache si stanno, via via, riempiendo di ipotesi sul se e sul come, in futuro, sarà possibile godere delle nostre amate spiagge.

In tempi di “distanziamento sociale”, ecco allora che sono comparsi vari progetti su possibili divisioni in plexiglass, più o meno verosimili e realizzabili, che a breve potrebbero isolare un ombrellone dall’altro, insieme a versioni alternative e più attente all’ambiente, che prevedono invece dei più ecologici igloo in bambù, uniti ad altri sistemi di contenimento, necessari per diminuire i contatti fra i bagnanti.

Spiaggiati, per il momento, solo sui nostri divani, abbiamo allora assistito a un dibattito sempre più vivace, scatenatosi sui social, nelle tv e sui giornali, fra chi propendeva per l’una o per l’altra ipotesi, o fra chi, al contrario, riteneva indispensabile mantenere tutto esattamente come è stato fino ad ora, senza alcuna divisione fisica che non fosse dettata dal buon senso.

Foto di Vittorio diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Nella ricerca, sempre più urgente, di conciliare le vecchie abitudini con le nuove necessità, non poteva mancare, ad agitare ulteriormente le acque, anche l’intervento di chi guida quella parte di Roma che con il mare e le sue spiagge ha costituito la propria identità, oltre che gran parte della propria economia: il Decimo Municipio, cioè quello che comprende Ostia.

E’ di pochi giorni fa un’intervista al Corriere della Sera, nella quale Alessandro Ieva, assessore all’Ambiente del Municipio X, quello di Ostia, affermava che: “se gli operatori economici hanno bisogno di lavorare, di ripartire pur con una serie di restrizioni, le spiagge libere al contrario non sono essenziali”. Poche parole per dire: ok, riapriamo pure gli stabilimenti privati, visto che tante persone lavorano in quel settore, ma scordiamoci per ora le spiagge gratuite, dove le necessità di distanziamento sono più difficili da mettere in atto, anche perché lì non c’è nessuno a controllare.

Subito si sono scatenate ferocissime polemiche: “ma così si trasforma la spiaggia in una roba solo per i ricchi!” ha detto qualcuno, mentre altri accorrevano in difesa dell’assessore, ricordando come le spiagge di Ostia – da decenni, durante la stagione estiva, regno incontrastato di orde d’indisciplinati “fagottari” – potrebbero trasformarsi subito in un enorme nuovo focolaio del virus, senza un rigido contenimento. E perciò, piuttosto che niente, meglio lasciare aperta almeno qualche spiaggia “per vip danarosi”.

Che uno svago popolare, un modo diffusissimo di trascorrere il tempo libero, comune a tutti, ricchi e poveri, si trasformi all’improvviso in una questione solo per le élites, non sarebbe una novità assoluta. Nell’Antica Roma, ad esempio, le terme erano spesso gratuite e frequentatissime, sia dai patrizi che dai plebei. Ma quando, con le incursioni barbariche, gli acquedotti cominciarono ad essere danneggiati, la manutenzione delle strutture iniziò a non venire più fatta con regolarità, per mancanza sia di fondi che di manodopera, andare alle terme – o, come si dice ora, alla “spa” o nel “beauty center” – è diventato, rapidamente, un privilegio per pochi fortunati dal portafogli gonfio.

Foto di Mark66_it diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

La storia, dunque, potrebbe ripetersi adesso sulle spiagge marine, la cui calca ferragostana diverrebbe solo un lontano ricordo, sostituita da sparuti gruppi di ricchi altolocati, proprio come avveniva un tempo sul Lido di “Morte a Venezia” e in altri racconti ambientati ai primi del novecento. Nihil novi sub sole, niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire. Che poi, parlare di sole abbinandolo alle spiagge, ci sta benissimo.

Ad ogni modo, quello di cui, forse, né Alessandro Ieva, né i suoi detrattori, ritengo siano fino in fondo consapevoli, è che nella frase dell’assessore (e di conseguenza anche in quelle dei suoi critici) vi sia la quintessenza di uno dei massimi dilemmi a cui la pandemia ci sta mettendo di fronte: la necessità di ripensare radicalmente, in ogni settore della vita e della società, l’equilibrio fra pubblico e privato, con le sue inevitabili forti ripercussioni sociali.

E’ possibile che Ieva sia preoccupato principalmente dal risolvere subito un problema di carattere pratico e sanitario, cercando di chiudere la questione nel modo più semplice ed efficace, senza altri pensieri.
È altrettanto probabile che molti dei suoi critici, forse non tutti, pensino per prima cosa a sollevare una polemica che potrebbe risultare popolare e quindi utile in termini di consensi elettorali. Anche loro senza altri più profondi pensieri.

Però, stavolta, dietro l’abituale teatrino della politica, quello che riempie le prime pagine dei quotidiani locali, dietro al solito balletto di posizioni fra maggioranze e opposizioni, la questione che si agita è decisamente più profonda e importante. Una questione che va ben oltre Ostia, ben oltre Roma, ben oltre il mare. E ben oltre i pensieri, le parole, gli atti di chi ha al momento compiti amministrativi sul territorio: quale deve essere il ruolo dello stato e quello del mercato in questa fase storica? E’ questa la domanda a cui anche la scelta sul mare di Ostia comincerà a dare concretamente una risposta.

A caldo, subito dopo lo scoppio della pandemia, in tv e sui giornali si era parlato moltissimo di “ritorno al pubblico”, soprattutto legato alla sanità, denunciando i danni fatti dai tagli nei finanziamenti e dall’eccessivo sviluppo di ospedali e centri medici privati, danni che la diffusione del Coronavirus stava mettendo a nudo.
Oggi però, col profilarsi della cosiddetta fase due, questo concetto di “pubblico buono” torna nuovamente a defilarsi, sia dal dibattito politico che dai provvedimenti concreti.

E così, se a livello nazionale, la task force, quella che dovrebbe guidare la “ripartenza”, viene affidata a un noto manager (privato), se il sostegno per le aziende in difficoltà viene delegato dallo stato alle banche (anche quelle private), contemporaneamente, a livello locale, ecco che spunta l’ipotesi di chiudere le spiagge libere (e dunque pubbliche), lasciando aperte solo quelle in concessione (quindi, di fatto, private).

Foto di Mark66_it diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Nei primi giorni del lockdown molti amministratori e opinionisti, di tutte le forze politiche, avevano gridato a gran voce che il bene di tutti viene decisamente prima dell’economia, che il mercato non può da solo risolvere una crisi come questa e che nulla sarà più come prima. Qualcuno si era persino spinto a ipotizzare che l’unica soluzione potesse essere una sorta di “nuovo socialismo”, in cui lo stato sarebbe tornato a intervenire e ad investire direttamente un po’ su tutto, dopo decenni di privatizzazione dei servizi.

Ma ecco che, quando si tratta ora di affrontare e risolvere i problemi concreti, quelli apparentemente più piccoli e quotidiani, più banali, la scelta torna a essere inversa: “se gli operatori economici hanno bisogno di lavorare, le spiagge libere al contrario non sono essenziali” si dichiara. Dunque: privato sì e pubblico no.
È l’economia quindi, a torto o a ragione, che torna a guidare ancora una volta le scelte, anche quando queste appaiono andar contro un interesse più generale, fosse anche solo il fatto di poter andare al mare gratuitamente.

Il tutto con ottime motivazioni, per carità.
Al momento, né il Comune di Roma, né il Municipio X avrebbero fondi sufficienti per assumere il personale necessario a controllare ogni bagnante nei tanti chilometri di spiagge libere del nostro litorale, né per acquistare le necessarie strutture per il distanziamento, siano esse pannelli in plexiglass o cupole di bambù. Tra l’altro il tempo stringe e, dunque, piuttosto che rischiare nuovi focolai di virus sulle spiagge di Ostia, si preferisce chiudere tutto, eccetto gli spazi privati, unici luoghi in cui le tasche dei concessionari potranno provvedere alle spese per i lavori di adeguamento, senza pesare sui bilanci pubblici.

Foto di Niko Sì diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Una scelta del genere ha dunque una sua logica, ed è anche comprensibile. Per certi versi è persino obbligata. Resta però il fatto che “la strada per l’inferno è spesso lastricata di ottime intenzioni” e che, di urgenza in urgenza, di banalità in banalità, a colpi anche di piccole decisioni quotidiane – proprio come quelle relative alle spiagge di Ostia – rischiamo ormai di incamminarci verso un mondo di disparità sempre più accentuate, verso un “nouvel ancien régime”, in cui il popolo, privo di pane, avrà a disposizione solo costose “brioches”, che verranno offerte, magari, sotto la forma di un ombrellone.

Quella che ci attende potrebbe, dunque, essere una Roma sempre più simile a quella papalina del vecchio marchese Onofrio del Grillo, una Roma fatta di pochi e ricchissimi “Perché io so’ io” e di troppi e impotenti “Mentre voi nun siete un cazzo”. Cittadini senza voce, privi di ogni concreta possibilità, fosse anche solo quella di restare “spiaggiati” su un bagnasciuga.

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