Il virus spaventa anche i campi rom

In questi giorni il messaggio #iorestoacasa è diventato un mantra per far capire l’importanza del distanziamento sociale nella lotta al Covid-19.
Ma a parte coloro che sono costretti ad andare al lavoro, e dunque non possono restare nel proprio appartamento, c’è anche chi non ce l’ha proprio, una casa: si tratta degli 8.000 senza dimora (
homeless) della Capitale, alcuni dei quali sono stati denunciati dalle forze dell’ordine.
Oppure c’è il caso di quelli che chiamiamo “rom” o comunque persone che vivono nei campi “formali”, vale a dire poco più di 6.000 persone. Per tutti loro, al momento, che non abitano in case, come le intendiamo di solito, vale insomma la regola #iorestonelcampo.

Chi vive in un campo, abita in un baracca, in un container o una roulotte. E dall’inchiesta condotta dall’Associazione 21 luglio – un’organizzazione non profit che si occupa di “gruppi e individui in condizioni di segregazione estrema” e in particolare di bambini – sembra evidente che questa parte della popolazione di Roma (lo 0,2%) sia praticamente abbandonata a se stessa, ai tempi del coronavirus.

Qui di seguito, utilizzando il rapporto che l’associazione ha diffuso il 19 marzo, abbiamo riportato la situazione dei diversi campi, citando anche le dichiarazioni di alcuni residenti.

 

La baraccopoli di via Cesare Lombroso

Questo è un insediamento inaugurato nel 1997, e ristrutturato nel 2005, a Casal Del Marmo. È composto da una cinquantina di unità abitative, alcune roulotte e diverse abitazioni realizzate con materiali di risulta. Nel 2019 il Comune di Roma ha censito la presenza di 181 persone di nazionalità bosniaca, tra cui 82 minori. I sopralluoghi effettuati dall’Associazione 21 Luglio evidenziano l’assenza di qualsiasi forma di manutenzione delle strutture esistenti, il deterioramento degli spazi abitativi, il sovraffollamento dell’area che causa spesso di litigi interni. Circostanze confermate dagli stessi abitanti.

Finora c’è stato un posto di controllo della municipale all’esterno della baraccopoli per il controllo del flusso in entrata e in uscita. «I vigili sono fuori dal campo e ci fanno uscire soltanto per la spesa. Subito ci chiedono dove andiamo, e ci dicono: “Lo sapete come funziona?”. Noi se dobbiamo fare la spesa ci mettiamo la sciarpa intorno alla faccia e usciamo» . «Sti vigili stanno giù ma non ci chiedono se abbiamo bisogno di qualcosa, vedono solo chi esce e chi entra e basta. A me stamattina sono uscito per il supermercato, mi hanno chiesto: “Dove vai? Ce l’hai l’autorizzazione?”. Gli ho detto di no, che andavo solo a fare la spesa. Mi hanno detto: “Allora per noi va bene ma se devi uscire un’altra volta devi portare l’autorizzazione”». 

All’interno dell’insediamento non sembrano prevalere particolari preoccupazioni, che riguardano solo quanti passano molto tempo al di fuori della baraccopoli. All’interno dello spazio abitativo, anche quello condiviso, c’è la percezione di maggiore sicurezza e sono basse le soglie di attenzione. Tuttavia, nel “campo” più piccolo della Capitale, gli abitanti sono parte di un’unica famiglia allargata, per cui c’è forte fiducia tra i membri circa i comportamenti individuali. 

All’interno dell’insediamento non sembrano prevalere particolari preoccupazioni, che riguardano solo quanti passano molto tempo al di fuori della baraccopoli

I genitori riconoscono che i propri figli sono in tal senso fortunati, perché possono giocare all’aria aperta coi cugini e i fratelli. «Nel campo ci muoviamo liberamente, ma non abbiamo le mascherine. C’è qualcuno che va troppo fuori. Abbiamo paura di avvicinarci troppo». «No, non usiamo accorgimenti. Giriamo liberamente. Possiamo uscire fuori dal container. Tanto rimaniamo sempre al campo». 

Dalle interviste raccolte non risulta che la baraccopoli abbia visto la presenza di operatori sanitari impegnati del distribuire dispositivi per la protezione individuale o nell’illustrare le norme di prevenzione del contagio.
Quando glielo si chiede, i rom rispondono che in ogni caso gli bastano le informazioni che ricevono dai media. Va però segnalato che in altre strutture di accoglienza sono state previste delle sessioni informative sul COVID-19 e sulle misure da adottare, oltre alla distribuzione di un decalogo e di dispense in diverse lingue. 

«Nessuno è venuto. Niente, niente, niente… Seguiamo sul tg tutte le indicazioni». «Seguiamo le indicazioni della tv. Mi sono fatto un foulard e mi metto quello per fare la spesa. Ho comprato i guanti, ma i ragazzini me li hanno buttati».
Dopo il decreto del 9 marzo 2020 è sul versante lavorativo che si avvertono i maggiori cambiamenti. V. è un cittadino bosniaco e ha 4 figli: «Sto fermo, come faccio a lavorare? In giro non c’è nessuno. Prima facevo la giornata, adesso nulla proprio, non so nemmeno quanto durerà… Il problema non è solo la malattia, ma il lavoro: al supermercato non è che mi regalano il cibo. Il governo dovrebbe dare dei buoni pasto. Prima andavo a fare 40 euro al giorno, col ferro, pulendo qualche cantina, ora non li faccio più. Mi sta mettendo molto in difficoltà, ho qualche risparmio, ma poco, ti dico la verità».

Dal tono della voce appare più preoccupata una donna, anche lei madre di 4 bambini: «Mio marito faceva il mercatino dell’usato, traslochi… ora stiamo fermi. Nessuno lavora per adesso. Abbiamo anche paura di andare in mezzo alla folla» . È sempre lei a rivelare un episodio di particolare gravità al quale è seguito un lungo tempo nel quale ha percepito un forte senso di abbandono: «Era l’11 febbraio e poi il 29, sempre di febbraio. Qualcuno ha buttato delle molotov sulla baracca con noi che dormivamo dentro. I documenti della scuola, i vestiti… tutto è andato carbonizzato, con i bambini che sono rimasti traumatizzati. Adesso che c’è questo virus i miei figli sono ancora più terrorizzati. Ma non andiamo da nessuna parte, nessuno ci viene a trovare, neanche la ASL, i Servizi Sociali, i Carabinieri, nessuno…».

Mio marito faceva il mercatino dell’usato, traslochi… ora stiamo fermi. Nessuno lavora per adesso. Abbiamo anche paura di andare in mezzo alla folla

Un uomo conferma la problematica legata all’occupazione: «Mia moglie esce, ma poco. Non abbiamo molto soldi per fare la spesa. Prima lavoravo per fare traslochi ma adesso non esco più».

 

«Che facciamo se c’è un contagio?»

L’insediamento di via Candoni, alla Muratella, è nato nel 1996 per ospitare un’ottantina di famiglie. Nel 2000 è stato allargato per far spazio ad ex abitanti del campo di via Casilina 700. Nel 2010 arrivano altre 21 famiglie da via Casilina 900, ospitati in container. Oggi l’area occupata è di un ettaro e mezzo. Ci sono 838 persone, di cui 409 minori: per due terzi si tratta di cittadini romeni, il resto bosniaci. “L’abbandono istituzionale ha fatto sì che le condizioni strutturali del “villaggio” appaiano in pessimo stato per l’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria. Si rileva mancanza di manutenzione delle unità abitative, saltuaria manutenzione dell’impianto elettrico, presenza di materiale di scarto non raccolto. L’acqua corrente è ufficialmente potabile, eppure i residenti esprimono dubbi al riguardo e non la utilizzano”, dice il rapporto.

Da anni l’ingresso della baraccopoli è presidiato in maniera stabile dalle Forze dell’Ordine. La loro azione sembra essersi recentemente inasprita: «Facevano i controlli all’ingresso e all’uscita come al solito, ma ora fanno più difficoltà. Vogliono che usciamo a piedi. E così 2 o 3 volte a settimana io e mia moglie andiamo a fare la spesa. Con le carrozzine usciamo e andiamo nei supermercati di zona». «Ci hanno detto che per fare la spesa non possiamo uscire più di una volta al giorno e non ci lasciano uscire con la macchina per far la spesa. Spesso è mia moglie che va a piedi a far la spesa, così i vigili fanno meno storie. Alla fine mangiamo di meno e facciamo più risparmio».

Ci hanno detto che per fare la spesa non possiamo uscire più di una volta al giorno e non ci lasciano uscire con la macchina per far la spesa

Alcune famiglie riferiscono di aver realizzato delle mascherine, che però vengono usate solo all’esterno per paura, dentro l’insediamento, di essere additati come “untori”. Non risulta che alcun operatore sanitario abbia indirizzato gli abitanti nell’adozione di adeguate misure preventive. Restano quindi precauzioni generiche, riconosciute dagli stessi residenti come poco efficaci. 

«Ci laviamo spesso le mani e preghiamo Dio». «Qui le condizioni fanno schifo da sempre, come puoi essere pulito in un campo?».
A seguito del decreto del 9 marzo 2020, l’attività lavorativa è risultata fortemente penalizzata anche se non mancano episodi di mutua solidarietà. «Io non lavoro, vivo con mio figlio che non lavora. Sua moglie fa l’elemosina ma non può più farla. Ma ci diamo una mano, chi può aiuta, dà soldi in prestito o fa la spesa per altri. Oggi tu aiuti me, domani io aiuto te». «Qui da noi funziona così: io ti aiuto finché posso, poi se non posso, non posso. Tutti noi abbiamo qualcosa da parte e riusciamo a vivere così ma se dura questa situazione con il virus cosa facciamo?». «Al momento se c’è qualche problema ci aiutiamo; è vero che siamo tutti famiglia ma non so per quanto ci aiuteremo se le cose vanno così per tanto tempo». 

Qui le condizioni fanno schifo da sempre, come puoi essere pulito in un campo?

La paura di un contagio, dovuta principalmente alla consapevolezza del sovraffollamento della baraccopoli e del vivere in unità abitative asfittiche sembra paralizzare alcuni abitanti che lanciano un appello. «Non c’è più lavoro, senza lavoro niente soldi e niente vita, abbiamo paura che ci isolano qui e se c’è un contagiato che succede, tutti in quarantena, tutti allo Spallanzani». «Il Comune di Roma deve fare qualcosa per noi, che facciamo se qualcuno di noi è contagiato?».

Anziani a rischio

Quello di via dei Gordiani, a Centocelle, è un “villaggio” munito di container, servizi igienici e recinzione. Ospita 260 persone – tra cui 89 minori – di nazionalità serba e bosniaca.
Le condizioni strutturali del campo appaiano in cattivo stato per l’assenza di manutenzione ordinaria e straordinaria. Si rileva mancanza di manutenzione delle unità abitative, otturamento della rete fognaria, saltuaria manutenzione dell’impianto elettrico, presenza di materiale di scarto non sempre raccolto.

Non c’è alcun presidio di vigilanza della Polizia Municipale. Alcune famiglie escono con frequenza per fare la spesa, altre si limitano ad uscite giornaliere. Malgrado il sovraffollamento dell’area, dalle testimonianze raccolte non vengono utilizzati particolari accorgimenti all’interno dell’insediamento. «In famiglia abbiamo comprato dei guanti ma non le utilizziamo all’interno del campo. Vorremmo avere delle mascherine ma non le abbiamo trovate». «No, non usiamo nessun accorgimento. Nessuno ha le mascherine, non si trovano». 

Qualcuno ha realizzato delle mascherine con del tessuto e nessun operatore sanitario risulta si sia presentato al fine di distribuire dispositivi o illustrare misure di prevenzione. In prospettiva futura, il sostentamento resta la preoccupazione maggiore. «Non lavoriamo più con il metallo, il mercatino e elemosina. Qualcuno ha un po’ di soldi da parte e con quelle risorse accantonate fanno fronte all’emergenza. Ma le risorse a disposizione mica sono infinite!». 

Alla domanda se ci sono famiglie non in grado di provvedere alle esigenze primarie per assenza di risorse, un giovane risponde: «Sì ce ne sono. Fortuna che alcune hanno il reddito di cittadinanza e almeno con quello sopravvivono».

Il problema più grave nella baraccopoli di Gordiani sembra però interessare gli anziani che, dopo il decreto del 9 marzo 2020 sono ancora più isolati. Una signora di 65 anni, intervistata, ne è un esempio: non può uscire dalla propria abitazione perché ha avuto numerose malattie pregresse e un intervento al fegato; vive di sussistenza e di aiuti da parte di enti benefici. Ha qualcuno nella baraccopoli che si prende cura di lei ma ultimamente l’aiuto si è ridotto. Ha paura del contagio pur non essendo totalmente cosciente della realtà al di fuori della baraccopoli. «Siamo abbandonati, nessuno ci dice niente, non sappiamo come fare. Tutti gli anziani del campo stanno così!». «A tutti gli anziani al campo mancano le cose fondamentali. Loro vivono di elemosina e adesso non hanno di che vivere. Di per sé tutti gli anziani hanno la comunità ma adesso tutti pensano a sé stessi».

 

Manca l’acqua potabile 

Il “villaggio” di Castel Romano nasce nel settembre 2005, con il trasferimento di famiglie originarie di Vlasenica, la città martire nella guerra civile in Bosnia, residenti da anni nell’insediamento di vicolo Savini. Nell’area, posta nel cuore della Riserva Naturale di Decima Malafede, le famiglie vivono inizialmente in tende fornite dalla Protezione Civile. Poi, con l’arrivo del freddo, il Comune decide l’installazione di un centinaio di container che l’anno successivo vengono sostituiti dai moduli abitativi prefabbricati. Nel 2007, con lo sgombero di Tor Pagnotta, arrivano altre 150 persone.  Nel febbraio 2010 si registrano nuovi arrivi dalla chiusura di Casilino 900 e famiglie bosniache che prima vivevano nel campo di La Martora. Dopo che nel 2017 la popolazione era arrivata a oltre mille persone, Nel 2019 c’erano 542 abitanti, di cui 282 minori, divisi in cinque diverse aree secondo la provenienza. 

Lo stato complessivo di abbandono appare evidente non appena si intravede l’insediamento dalla Pontina. Le strutture abitative sono fortemente deteriorate e prive di ordinaria manutenzione. Gli abitanti lamentano da anni l’assenza di acqua potabile, l’intermittente manutenzione dell’impianto elettrico che porta a frequenti distacchi, problemi legati alle precarie condizioni dell’impianto fognario.

All’entrata della baraccopoli un presidio mobile della Polizia Locale monitora solo in alcuni orari il flusso degli automezzi in entrata e in uscita. Dopo il decreto del 9 marzo la sua presenza è auspicata da qualcuno in maniera stabile: «Tutti fanno come vogliono, poi uno deve uscire per fare la spesa, solo uno per famiglia, ma alla fine si contagia uno, si contagiano tutti e tutti stanno in quarantena poi. Meglio se c’è la Polizia che fa controlli» . 

In assenza di controlli permanenti alcune famiglie, prive di automezzi, utilizzano passaggi per poter raggiungere supermercati. All’interno della baraccopoli non vengono utilizzate particolari misure di prevenzione e nessun ente o operatore sanitario ha consegnato dispositivi di protezione personale o illustrato misure di prevenzione contro il contagio del Covid-19. 

Tutti fanno come vogliono, poi uno deve uscire per fare la spesa, solo uno per famiglia, ma alla fine si contagia uno, si contagiano tutti e tutti stanno in quarantena poi. Meglio se c’è la Polizia che fa controlli

Nell’insediamento da diversi mesi non c’è accesso all’acqua corrente. Per questo: «Una volta ogni 2 o 3 giorni viene un’autobotte a darci 2 taniche di acqua a container. Non abbiamo acqua da mesi, il Comune ci porta l’acqua ma non è sufficiente; ma come fai a lavarti, a cucinare, a fare la doccia e a bere con così poca acqua? E’ un casino e nessuno fa niente a riguardo, tutti sanno come stiamo qua e nessuno fa niente». «Non c’è acqua potabile. La situazione è critica e molto a rischio». Alcune famiglie si sostengono grazie al reddito di cittadinanza. Per altre la situazione si va progressivamente deteriorando e c’è chi si vede costretto ad uscire all’esterno per “sfamare la famiglia”. «Nella nostra area ci sono almeno una decina di persone che non hanno i mezzi per vivere. Adesso non si può fare più l’elemosina e il mercatino è chiuso». «Noi guadagnavamo con il mercatino ma ora è chiuso. Cosa facciamo? Alle famiglie che adesso non hanno nulla diciamo “Chiamate le associazioni e fatevi portare qualcosa da mangiare”».

 

Via Salone 

La baraccopoli di via di Salone, a Settecamini, è nato nel 1997, col trasferimento di famiglie rom che venivano dall’Acqua Vergine e dall’area della Stazione Prenestina. Nel 2006 in una zona vicina è stato realizzato un “villaggio dell’accoglienza” per 600 persone. Nel 2019 c’erano 364 persone, tra cui 174 minori. 

Attualmente nel “villaggio” insistono unità abitative in pessime condizioni e, in alcuni periodi dell’anno, risultano drammatiche le condizioni igienico-sanitarie. Dai sopralluoghi effettuati da Associazione 21 Luglio evidente è lo stato di abbandono dell’insediamento e la sola presenza istituzionale è quella della municipale, all’ingresso, 24 ore su 24.

Allo stato attuale l’attività dei vigili è rivolta principalmente nel garantire, all’interno delle auto in uscita, il rispetto della distanza minima di un metro. Ciò si traduce, da parte dell’autista, nell’impossibilità di poter accompagnare altre persone che non siano conviventi. «Così non posso uscire a fare la spesa. Io non ho la macchina e ogni volta provo a chiedere a qualcuno se mi può accompagnare. Ma quando salgo in macchina vengono i vigili e ci dicono che bisogna uscire uno alla volta. Uno per ogni macchina. Ma così come faccio a uscire? Come faccio a fare la spesa?». 

Il “villaggio” dista più di 3 chilometri dal primo negozio di alimentari e la strada non ha marciapiedi e non dispone di illuminazione pubblica. La pandemia di Covid-19 ha avuto in Italia sua prima manifestazione epidemica il 30 gennaio e da quella data nessun operatore sanitario si è recato al Salone per illustrare le misure igienico-sanitarie previste. «No, nessuno è venuto a spiegarci niente. Quello che dobbiamo fare lo vediamo in televisione ma non sappiamo neanche se facciamo bene».

«L’acqua ha poca pressione e non sempre c’è. Qualcuno si lava, qualcuno neanche può farlo. Qualcuno ha cercato le mascherine in farmacia ma costano troppo». La maggioranza degli adulti presenti nella baraccopoli si mantiene grazie ai lavori informali svolti quotidianamente. Attività che vanno dalla raccolta di materiali ferrosi alla pulizia delle cantine, ai traslochi. Per alcune donne l’economia familiare si sostiene attraverso l’attività di elemosina. 

«Io raccolgo il ferro. Ho pure fatto tutti i documenti per andare in giro a raccoglierlo. Ma adesso siamo bloccati e non si va avanti. Chi ha qualcosa da parte, va bene. Ma chi vive alla giornata, come fa?». «Mio marito sta in carcere ed io da quando c’è questo virus non posso uscire a fare l’elemosina perché ho 6 figli tra i 12 e i 2 anni e non posso mica lasciarli soli! Ma se non chiedo l’elemosina come vivo? Cosa porto a casa?». «Prima facevo i traslochi e vivevo alla giornata. Ora non mi entrano più i soldi giornalieri e non ho neanche da mangiare». 

Chi ha qualcosa da parte, va bene. Ma chi vive alla giornata, come fa?

Prima della crisi del Covid-19 la solidarietà familiare assicurava nella baraccopoli uno scambio di beni primari ed alimenti che consentiva ad alcuni nuclei in particolare condizione di povertà di superare i momenti più difficili. Tale circuito oggi si è interrotto per la paura che il passaggio dei beni corrisponda ad un contagio del virus.

«Adesso tutti si guardano con paura, non è più come prima. Le cose non si danno più. Cosa ne so io se quello che abita nel container di fronte al mio mi passa la malattia?». Secondo le testimonianze raccolte i più penalizzati da questa condizione di isolamento interno sono gli anziani e i bambini. «Nel campo ci sono almeno tre vecchi che vivono da soli. Stanno sempre chiusi dentro e abbiamo pure paura di bussare. Ma nessuno sa neanche se hanno da mangiare». «C’è ancora qualcuno che ha qualche risparmio ma quando anche questi soldi finiranno sarà un macello. Chi sta peggio sono gli anziani. Sono spaventati, sono chiusi nei container e nessuno sa se sono vivi o morti». «Io ho una bambina di 4 e una di 3 anni. Me le tengo strette. Si chiudono tutto il giorno nel container oppure qualche ora davanti la porta di casa. Sembrano cagnolini legati al guinzaglio. Poi i ragazzini più grandi non ce la fanno e li vedi girare in gruppo».

Adesso tutti si guardano con paura, non è più come prima. Le cose non si danno più. Cosa ne so io se quello che abita nel container di fronte al mio mi passa la malattia?

Cosa accadrebbe?

“Cosa accadrebbe se, come prospettato da alcuni abitanti intervistati, in un insediamento come quello di via Luigi Candoni, abitato da più di 800 persone di cui la metà minori, venisse riscontrata anche una sola positività?”, chiede il rapporto nelle sue conclusioni. 

 

“La promiscuità riscontrata nella baraccopoli, dove si riscontra un evidente sovraffollamento interno ed esterno alle abitazioni, è tale da poter isolare solo il paziente e la sua famiglia o andrebbe messa in quarantena l’intera comunità? Una risposta potrebbe venire da quanto avvenuto lo scorso 13 marzo a Cuneo dove, il solo aver verificato che un abitante di un insediamento rom aveva avuto nei giorni precedenti un contatto con un soggetto risultato positivo, ha spinto le autorità a notificare a tutti i 50 residenti un’ordinanza di isolamento fiduciario domiciliare. Analoga risposta è stata data dalle autorità il 17 marzo a Lucca dove, nell’insediamento di via della Scogliera la positività di un’abitante ha avuto la messa in quarantena dell’intera comunità”.

Insomma, dice l’associazione, occorre intervenire, e presto. Associazione 21 luglio raccomanda alle autorità di “mappare all’interno degli insediamenti formali le condizioni di maggiore fragilità con l’obiettivo di garantire, in particolare ai minori e agli anziani, la distribuzione beni di prima necessità” e garantire all’interno di ogni singolo insediamento condizioni igienico-sanitarie adeguate, assicurando prima di tutto l’accesso all’acqua potabile.

Ma serve anche assicurare all’interno degli insediamenti la presenza di operatori sanitari e di mediatori culturali che possano promuovere una campagna informativa sulle misure di prevenzione e distribuire agli abitanti dispositivi di protezione individuali. E infine, “predisporre per tempo, in caso di riscontro di una o più positività al Covid-19 all’interno degli insediamenti formali, un adeguato e tempestivo piano di intervento sanitario, al fine di evitare che la città arrivi impreparata a tale evento”.

Per questo, l’associazione ha lanciato una petizione alla sindaca Virginia Raggi, che si può sottoscrivere a questo indirizzo web.

[Le foto utilizzate, prese da diversi siti web, sono state scattate prima del blocco provocato dall’emergenza Coronavirus]

 

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