Massimo Cinti, sognando vegan

Da piccolo voleva fare l’astronomo, ma dopo aver trascorso una vita a occuparsi di direct marketing, ora il suo sogno da adulto è quello di conquistare il mercato con i suoi catering vegetariani e vegan.

Alle dieci e mezzo di mattina Massimo Cinti, che sembra un bel po’ più giovane dei suoi 57 anni, sta mettendo sotto vuoto due sue creazioni. Delle polpette al sugo “Beyond Meat”, fatte soprattutto con proteine di piselli, e del “This isn’t chicken” al curry, a base di soia e un bel po’ di altri ingredienti (poi mi dirà che il sapore di quest’ultimo piatto è “un po’ troppo dolciastro”, e che deve ancora lavorare alla ricetta; ma dopo averlo assaggiato devo ammettere che è tutto molto buono – forse il non-pollo al curry è un po’ dolce, effettivamente – e soprattutto che sembra di mangiare carne, per la consistenza e anche il sapore).

Messe da parte le vaschette vegan, Massimo però inizia a preparare un catering assolutamente onnivoro, con pasta, contorno, arrosto. È il pranzo delle troupe di Loft, la piattaforma video del Fatto Quotidiano, che la sua società, Catering No Borders, che ha fondato un paio di anni fa, rifornisce da qualche mese. “Il mio sogno è quello di preparare soltanto catering vegetariani e vegan. Ma è un progetto ancora non economicamente sostenibile; anche se ci stiamo lavorando”. E così, anche se è veggie da quasi 10 anni e sta pensando di diventare vegano, accetta comunque di cucinare ancora carne per i suoi clienti. Anche se, dice, si sente sempre più a disagio. Un vegetariano realista.

Mentre lavora, chiacchieriamo. In realtà ci conosciamo da più di 20 anni – all’epoca quello vegetariano ero io – ma entrambi fatichiamo a ricordare quale sia l’ultima volta che ci siamo visti.

Riprendiamo la storia di Massimo dall’inizio. Nasce nel 1963 a Roma, i suoi genitori vivono Casalbernocchi, una borgata lungo la via del Mare, praticamente attaccata ad Acilia, con una propria stazione sulla Roma-Lido. Il padre è impiegato all’ufficio abbonamenti del settimanale L’Espresso. Da bambino la sua grande passione è l’astronomia, e sogna di andare a studiare all’università di Bologna o Padova. Ma la sua famiglia non può mantenerlo e la frequenza dei corsi è obbligatoria, lavorare e studiare insieme è un po’ difficile: per questo. Finirà per iscriversi a Matematica, alla Sapienza di Roma, ma non arriverà alla laurea. 

LE DATE
1963, nasce a Roma
1981, comincia a lavorare al marketing
1999, incendio doloso del suo stabilimento
2011, diventa vegetariano
2012, si trasferisce a Londra
2017, torna in Italia
2018, fonda Catering No Borders
2019, lancia una linea di prodotti vegan già pronti

Nel frattempo è stato bocciato due volte al liceo scientifico, anche se è brillante e ha spirito d’iniziativa. Riesce a passare la maturità come privatista. “A differenza del lavoro a scuola non mi applicavo a sufficienza, mi piacerebbe poter vantare persecuzioni per la mia ‘anarchia’, ma la scuola non funziona così, per fortuna”. Passa diverso tempo con gli amici del quartiere e insieme a loro, nel 1981, fonda un centro sociale in un edificio comunale abbandonato. Dopo una serie di occupazioni e sgomberi, qualche anno più tardi il Comune ristruttura lo stabile e lo assegna in parte al centro anziani, in parte ai giovani del posto, in autogestione.

Intanto Massimo comincia a frequentare gli uffici de l’Espresso, dove scopre le schede perforate Ibm e si appassiona ad abbonamenti, marketing, promozioni, mailing. Ma la rivista decide di esternalizzare i servizi. Così l’ex aspirante astronomo si mette in proprio, apre la partita Iva e comincia a lavorare.

Il business funziona, e Massimo arriva a gestire un gruppo di quattro diverse società, che si occupano di promozione e telemarketing. Prende in affitto un capannone nell’area industriale di Dragona, dove installare le macchine che si usano per imbustare il materiale promozionale, ma da dove partono anche gli arretrati, o le videocassette che all’epoca vendeva l’Unità. A un certo punto avrà alle sua dipendenze una cinquantina di persone. 

“Ero contento di aver creato una cosa del genere praticamente dal nulla vicino a dove abitavo, nella mia zona, e di aver dato lavoro a così tante persone”, dice. Nel frattempo diventa un dirigente dell’Associazione Italiana del Direct Marketing, è un manager, guadagna bene, i suoi contatti si moltiplicano. Partecipa all’elaborazione del codice disciplinare per gestire i dati degli utenti nelle aziende, mentre sta nascendo la prima legge italiana sulla privacy, nel 1996.

 

Nel 1999, però, il sogno bruscamente si interrompe: il capannone viene dato alle fiamme. “Prima c’erano stati una serie di furti. Sospettavo di uno o due dipendenti, e andai dai Carabinieri a fare denuncia. Loro fecero degli accertamenti, e durante un appostamento arrestarono un lavoratore”. Tre giorni giorni dopo, l’incendio. “La crisi è arrivata subito. Ero ancora troppo giovane, non ero preparato a questo genere di cose, pensavo di poter avanti lo stesso, ma non avevo capitali da investire”, racconta ancora Massimo. “Prima fui costretto a ricorrere alla cassa integrazione. Due aziende andarono in liquidazione, per altre due scattò il fallimento”. Ma ne esce senza debiti col fisco né con gli ex dipendenti.

Da manager che guida più di una società, si ritrova per qualche tempo a fare l’operaio addetto all’imbustatura, lavorando anche in nero. Nel 2001 lascia Casal Bernocchi e si trasferisce con la compagna all’Infernetto, dove vive ancora oggi. Continua a lavorare come commerciale fino al 2012, quando decide di partire per la Gran Bretagna. 

Tornerebbe indietro? “No, per nessuna ragione. Tempo fa mi è capitato di incrociare un gruppo di manager, incravattati, chiusi in ufficio. Ho pensato che non voglio mai più fare una cosa del genere”

Un colpo di testa, praticamente. Non parla granché inglese, non ha contatti, solo una sua conoscente che vuole condividere un appartamento. Sa solo che vuole rilanciarsi nel marketing. 

Lavora come lavapiatti o cameriere, come tanti, di solito più giovani. Studia inglese. “Quando mi sono sentito pronto, ho spedito il mio primo curriculum, via email. Due ore dopo mi hanno dato appuntamento per un colloqui l’indomani mattina. Ma non avevo referenze locali. Me la sono cavata lo stesso, però: cercavano un apprendista per un centro congressi a Greenwich, sei mesi in cucina da lavapiatti, sei mesi al ristorante, sei mesi alla reception. A 49 anni ho cominciato a lavare i piatti: non avevo alcuna voglia di tornare a Roma, e la mia compagna continuava a sostenermi, anche se vivere da pendolari era difficile”.

Massimo inizia a lavorare in un centro congressuale che ha un hotel quattro stelle. Prende un bus alle 4.30, alle 6 inizia il turno. Dato che ha sempre lavorato con programmi di gestione, inizia subito a dare una mano al kitchen assistant a programmare ordini e acquisti. “Come organizzatore, non sono male”, dice di sé. 

Dopo tre mesi, inizia il corso di formazione da chef e impara preparare pasti per almeno 100 persone alla volta. 

Nel 2014 l’head chef e il general manager se ne vanno. Massimo decide di licenziarsi, si sente pronto a cercare un altro lavoro, che trova al Premier Inn di Kings Cross, dove comincia a preparare la colazione per 350-500 persone, dalle 6 alle 13. L’anno dopo va a lavorare a Guilford, nel Surrey, non lontano da Londra. Si occupa sempre di colazioni: “Quel tipo di lavoro interessa a meno persone, e poi sono sempre stato abituato a svegliarmi presto”. Ci racconta il menù di una colazione all’inglese: salsicce, due tipi di bacon, uova fritte, strapazzate, vari tipi di frittata, black pudding (fatto con sangue e grasso di maiale), frittelle di patate, fagioli in umido, funghi alla griglia, salumi, formaggi, toast, burro, marmellata, frutta sciroppata, smoothies (sicuramente, scrivendo, ho dimenticato qualcosa).

Lo promuovono sous chef. Ha un sacco di tempo libero che impiega leggendo, passeggiando, arrampicando in una palestra. Ma la distanza dalla compagna, che è rimasta a Roma e che vede un paio di volte al mese, pesa.

Nel 2017 decide allora di tornare in Italia. C’è stato il voto sulla Brexit, ma non è quello a preoccuparlo (“Mi mancava poco per avere la cittadinanza britannica”, dice). 

 

A Roma decide di lanciarsi in cucina, con l’idea dei buffet a domicilio. “È l’unica attività che si può intraprendere senza investimenti eccessivi, dove quello che conta soprattutto è il tuo lavoro. Ti pagano cash e paghi cash i fornitori. E faccio tutto da solo: la spesa, la cucina, l’allestimento, le consegne”. Anche se in alcuni casi si affida poi per le consegne a giovani, soprattutto figli di amici.

“Da maggio scorso non ho avuto un giorno libero, praticamente”, dice Massimo. A dicembre il 90% della produzione è stata vegan

Nasce così l’idea di “Catering No Borders”, che è sia un invito a “viaggiare” in cucina, sia una dichiarazione politica contro i “sovranisti”, che non gli piacciono. Ristruttura una parte della casa per trasformarla in laboratorio di gastronomia, con tutte le autorizzazioni del caso. Organizza qualche evento sociale – ma evita i social – e punta sul passa-parola per farsi conoscere. 

Come sta andando? “Da maggio scorso non ho avuto un giorno libero, praticamente”, risponde Massimo. A dicembre il 90% della produzione è stata vegan. La società ha raggiunto il pareggio di bilancio, quest’anno punta ad andare in attivo. E soprattutto, a espandersi nel settore, con i catering ma anche con le consegne a domicilio a singoli clienti che vogliono un pranzo o una cena vegan. Per il momento, il servizio copre la zona di Infernetto e Casalpalocco.

Massimo ha iniziato a promuovere i suoi piatti nei bar, nelle tavole calde e nei ristoranti tradizionali di Roma insieme a una sua amica, Giuliana, che si occupa della parte commerciale. Offre prodotti vegan sottovuoto, solo da riscaldare, come quelle polpette che mi ha fatto assaggiare. O come l’amatrigana, una versione di amatriciana vegana, grazie a una serie di spezie che danno davvero l’odore del guanciale (ho odorato il composto) e a un impasto consistente che viene poi tagliato in cubetti. “Ma ci sto ancora lavorando”, dice.

Tornerebbe indietro? “No, per nessuna ragione. Tempo fa mi è capitato di incrociare un gruppo di manager, incravattati, chiusi in ufficio. Ho pensato che non voglio mai più fare una cosa del genere”.

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