I più amati dai romani

L’antico popolo romano non ebbe mai grandi difficoltà a liberarsi di figure troppo dispotiche ed accentratrici nella corso della sua storia. Lo fece cacciando nel 509 a.C. l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, così come, dopo i cinque turbolenti secoli di Repubblica, riuscì, con manovre più o meno complesse, a sbarazzarsi di imperatori folli o sanguinari.
Bastava ordire una congiura di palazzo e ritorcere contro l’imperatore di turno proprio i pretoriani, cioè le stesse guardie imperiali. Erano omoni grandi e grossi, molto temuti. Una volta convinti a tradire il Nerone di turno, gli si presentavano ponendogli molto democraticamente la scelta tra suicidarsi, davanti a loro e nel modo che preferiva, o essere trucidato. La scelta ricadeva ovviamente sul suicidio, magari come fece lo stesso Nerone, che, vistosi perduto, e saputo dell’imminente arrivo dei pretoriani, chiese al suo amico più fidato, un potente liberto, di “suicidarlo” pugnalandolo, prima di cadere nelle loro mani.
Per alcuni imperatori particolarmente invisi al popolo, come Nerone per l’appunto, interveniva in breve tempo, la damnatio memoriae, una sorta di sentenza che decretava la distruzione di tutto ciò che ricordava lo sgradevole personaggio: raffigurazioni, statue, incisioni. Probabilmente fece questa fine l’enorme statua di Nerone che si ergeva davanti all’Anfiteatro Flavio (Oggi, Colosseo) e che, per le sue “colossali” dimensioni diede il nome al teatro stesso.

Soltanto due uomini di potere, però, ebbero addirittura la sorte di essere divinizzati. Solo due. La concretezza ed il prosaicismo del popolo romano, in questi due casi, fecero un passo indietro.
Il primo fu Romolo, il fondatore dell’Urbe, colui che diede a Roma l’impulso per trasformarsi, da villaggio di rozzi pastori, a potenza di primo livello, dominatrice di popoli.
Di Romolo gli storici più attendibili, tra cui Tito Livio, raccontano che fu addirittura sottratto alla “volgarità” della morte, perché, probabilmente sul campo di battaglia, fu avvolto da un turbine e scomparve, per essere portato tra gli dei. I romani lo venerarono col nome divino di Quirino, e per lui edificarono addirittura un colle, il Quirinale. 

Foto di Portable Antiquities Scheme diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Eppure, nel cuore di Roma, forse c’è qualcosa di lui, magari i suoi stessi resti. All’interno dell’area del Foro Romano, nei pressi della Curia, c’è un’area denominata Lapis Niger (pietra nera). Originariamente era un luogo dedicato ai comizi, ma col tempo assunse un significato sinistro, sottolineato anche dalla posa appunto di un pavimento nero. Ciò fu dovuto al fatto che i Galli comandati da Brenno, durante il primo drammatico sacco di Roma nel 390 a.C., avevano profanato il luogo che probabilmente era la tomba del fondatore di Roma. Pare addirittura che in origine vi fossero, ai lati dello spazio sacro, due leoni accovacciati, che di solito erano rappresentazioni dei guardiani dei sepolcri. Dopo la profanazione, secondo la leggenda, il luogo divenne infausto.

Se il Lapis Niger è un luogo misterioso e leggendario, nel quale gli archeologi sono riusciti a datare strati risalenti all’età arcaica (quella monarchica, appunto), e dunque la teoria della sepoltura del primo re  non sarebbe tanto peregrina, un altro è il luogo dell’anima della storia romana. Ed è proprio a pochi passi dalla Pietra nera. Si tratta del luogo dove venne portato il corpo di Giulio Cesare immediatamente dopo l’uccisione.

Foto di Michele Mazzoli diffusa su flickr.com con licenza creative commons

Il senato romano si era sempre riunito nella sua sede ufficiale, la Curia Iulia, che oggi si trova all’interno del Foro.
Tuttavia, proprio nei giorni precedenti le famose Idi di Marzo del 44 a.C., giorno dell’uccisione del dittatore, il senato si riunì provvisoriamente nella Curia di Pompeo, i cui resti si trovano tuttora a Largo Argentina, proprio perché nella Curia Iulia si stavano svolgendo dei lavori (no, non erano gli scavi per la metro C).
Cesare uscì di casa per recarsi a quella che non sapeva sarebbe stata la sua ultima seduta in senato. Lo accompagnava Antonio, fedelissimo amico, guardaspalle, generale, tuttofare. Lungo la strada, si assiepava la folla, e, come se si trattasse oggi del Papa, tutti allungavano le mani per toccarlo o, nel caso di qualche fortunato, per strappargli un pezzo di toga. Quando Cesare fece per entrare in senato, un’anziana donna, d’accordo con i congiurati, tirò a sé Antonio con la scusa di chiedergli un atto di clemenza, e questo contrattempo impedì al più fidato amico del dittatore di entrare con lui nella Curia. Era un espediente per far sì che Antonio non fosse presente all’uccisione di Cesare, poiché certamente l’avrebbe ostacolata, o addirittura impedita, magari immolandosi al suo posto.

Sappiamo come finì. L’aristocrazia senatoria riuscì a compiere ciò che aveva orchestrato da tempo e con meticolosità.

Ma il popolo e l’esercito (la vera anima di Roma), che veneravano Cesare, perdevano molto più di un dittatore. Erano riusciti a perdonargli tutto, l’accentramento di poteri degno di un monarca assoluto, le continue assenze per le sue fughe d’amore in Egitto da Cleopatra, la sua mai chiarita vicinanza ai congiurati catilinari del 63 a.C..
Perché? Perché fu ed è tuttora, nella storia dell’Occidente, uno dei due soli generali ad essere in prima linea, sempre, con i suoi soldati, con le gambe nel fango delle piovose pianure nordeuropee. Dopo di lui, solo Napoleone Bonaparte. Provateci voi a combattere, come Cesare, sulla linea del fronte, contro i Galli, omoni nerboruti e rozzi, ancora dediti ai sacrifici umani, o, peggio, contro i Germani, ancora più nerboruti e ancora più rozzi (egli aveva notato con orrore che, come rito di iniziazione, mandavano i loro adolescenti mezzi nudi nelle foreste innevate, per alcune settimane, a procacciarsi da vivere. Chi tornava, era adatto alla guerra. Tutto questo, mentre i giovani romani venivano educati all’oratoria ed alla filosofia platonica, oltre che, ovviamente all’uso delle armi).

Foto di Alvaro Rdrigo Marqués diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Cesare, ormai deceduto, venne portato nella zona dell’attuale Foro romano, nei pressi del tempio che sarebbe stato costruito in suo onore dal nipote Ottaviano Augusto, il Templum Divi Iulii (il tempio del dio Giulio). Lì, deposto su un letto funebre, venne pianto per giorni dal popolo romano.
Oggi, di quel luogo, nel foro, resta una nicchia, ed ancora c’è, sotto di essa, il letto funebre di Cesare, una superficie in marmo, che i visitatori, dirigendosi verso la Curia Iulia, possono scorgere sul percorso, alla loro sinistra, qualche decina di metri prima della Curia.
Ogni giorno, su quel letto in marmo, ci sono mazzi di fiori freschi. Freschi, sì. Ve li portano turisti e romani. Ogni giorno.
Da 2.064 anni.

Perciò, ogni volta che pensiamo ai romani come un popolo disincantato e indifferente, dovremmo ricordarci di ciò che è stato capace. E, per una volta, non in relazione alla conquista del mondo che portò Roma a far diventare propria provincia tutta la terra allora conosciuta. Ma per ciò che riguarda il rispetto, la stima, l’onore e l’amore per governanti all’altezza. Che Roma, nel corso dei secoli, qualche volta ha avuto.

 

[La foto del titolo è di Sgt. Peppers 57 ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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