“Roma è una città infedele”

“Io mi sento un frate che fa il pittore, la parola artista non mi piace tanto”, dice di sé Sidival Fila, che espone le sue opere a Palazzo Merulana fino al 5 ottobre, in una mostra intitolata “La materia svelata”.
Il religioso vive e lavora a Roma, nel convento francescano di San Bonaventura al Palatino. Attualmente è presente alla Biennale di Venezia con il polittico “Golgota”, un’installazione site-specific all’interno del Padiglione Venezia, ai Giardini. Brasiliano di origine, si trasferisce nel 1985 in Italia, dove scopre la vocazione spirituale che lo porterà ad entrare nell’Ordine dei Frati Minori di San Francesco d’Assisi. L’ingresso nell’ordine corrisponde ad una volontaria interruzione dell’attività artistica, abbandonata per ben diciotto anni. 

Il frate torna all’arte, partendo da piccoli “lavoretti” pratici e dal 2006 riprende un percorso non più interrotto.  Utilizza tecniche a materiali diversi: dagli oggetti di scarto ai tessuti. L’obiettivo è quello di far emergere, attraverso il suo lavoro, la luce/energia presente nella materia, e di riconsegnare alla vita comune quanto scartato o dimenticato. Insomma, c’è anche una nota politica sull’uso delle cose del mondo. 

Come scrive in una didascalia della mostra José Tolentino de Mendonça, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa (che il 5 ottobre verrà creato cardinale da Papa Francesco), il riferimento è a quei filosofi francescani medievali i quali “sostenevano che solamente l’uso è indispensabile alla vita, rinunciando così ad ogni aspirazione alla proprietà”. Spiega poi: “Ora, è evidente che Sidival Fila costruisce la sua opera in questa direzione, come una sorta di teoria dell’uso. Ovverosia: come una continua riflessione e pratica sul significato del riutilizzo, del riciclaggio, del restauro, dl rimontaggio o della riparazione in quanto espressioni dell’uso che noi facciamo del mondo”. 

Sidival Fila, cosa segna per lei questa mostra a Palazzo Merulana?
È una tappa importante, perché fare una mostra in luoghi istituzionali ha sempre un valore diverso, piuttosto che fare delle mostre nelle fiere o in gallerie. E poi avere la possibilità di dialogare con una collezione importante come quella, che è del primo Novecento (la collezione ospitata a Palazzo Merulana, ndr), è stimolante: una cosa è esporre delle opere in uno spazio libero, asettico, in cui uno mostra il proprio lavoro; un’altra cosa è stabilire un dialogo che non è sempre facile per chi vuole dedicarsi alla ricerca artistica.

Un esempio è l’installazione tridimensionale, al di sotto della quale si ‘svela’ l’opera Genesi n2 (1947) di Antonietta Raphael, appartenente alla collezione permanente. Ci dice qualcosa del suo rapporto con l’arte e la creazione?
Quello è stato l’intervento più diretto, più chiaro e più visibile, su un’altra opera di un’artista. L’idea era quella di poter vedere quell’opera, senza danneggiarla o deturparla, in un modo nuovo. Creando attraverso questi fili una destrutturazione della materia, quasi spiritualizzandola, alleggerendola.  Filtrandola attraverso questa velatura. Questo è un intervento diretto, mentre nelle altre sale c’è un intervento meno invasivo ma più in ambito cromatico, di forme e di volumi, come dei passaggi tra un’opera esposta sul muro e il mio lavoro. Mentre al terzo piano ho creato delle installazioni solo con le mie opere destinate a quello spazio. Quello che caratterizza questa mostra non è tanto una esposizione di quadri: sono diverse installazioni, anche se fatte da quadri.

Padre guardiano al convento. Vocazione religiosa e vocazione artistica. La sua arte ha una natura contemplativa?
Io penso che l’arte è espressione della persona nella sua integrità e allora non posso scindere dall’essere frate e dal fare anche il pittore. Poi io sono, noi siamo, il risultato di una relazione, sia con gli altri, sia con Dio, per chi crede. Quindi è inscindibile in questo processo creativo che la mia persona e la sua totalità si esprimano.  Poi l’arte è espressione del proprio sé che è frutto di una relazione. Io mi sento un frate che fa il pittore, la parola artista non mi piace tanto. Ho un’attività. La mia essenza è essere un religioso-sacerdote, questo riguarda la mia persona. Mentre l’arte è un’attività che è conciliabile.

 La figura di San Francesco con il suo amore per le cose piccole e scartate dal mondo può esser stato un ispiratore della sua opera artistica?
Più che ispirazione è un carisma, è avere una certa sensibilità e credere che ogni cosa ha qualcosa da raccontare, così nel mio lavoro prendendo delle stoffe in disuso, che oramai non hanno più né una funzione sociale, né una funzione estetica, perché spesso sono molto rovinate, e dare loro la possibilità di raccontarsi. A me piace di più il termine “riscatto”, più che “recupero”, perché recuperare – come dico spesso – è strumentalizzare qualcosa per un altro fine. Invece il “riscatto” permette alla cosa di manifestarsi per quello che è, per cui permettere a delle cose antiche o moderne di parlare è come dare voce a chi non ha più voce. Siamo chiamati a dare voce nel mondo a quelle persone che sono emarginate, anche nell’arte dare voce a degli oggetti ritenuti obsoleti o inutili è un modo tipico del carisma francescano.

Questo “riscatto” passa attraverso il lavoro con il colore, la tessitura…
Nella mostra c’è solo un’opera che è dipinta, un piccolo blu, un blu cobalto, quello è quadro fatto con un tessuto moderno e poi dipinto. Con questa ho voluto mostrare l’evoluzione del mio lavoro. Mentre quando trovo un tessuto che ha già una sua pittura, segnata dal tempo, dalla memoria e dallo spazio, lo rispetto per quello che è.

Sidival, lei vive a Roma da tempo, come si trova in questa città?
Roma è una città che è impossibile non amare, nonostante non sia una città molto fedele… (ride). Roma educa alla bellezza. Io non trovo tanta ispirazione in quello che vedo, ma c’è una pedagogia della bellezza in questa città che volente o no ci influenza. Guardando certi quadri che sto facendo adesso, mi rendo conto che rimandano a queste colonne romane scanalate. In fondo vedendo sempre queste colonne, le forme rimangono impresse nella mente, e anche senza volerle copiare o riprodurre diventano parte di te. Stando poi in questo posto, davanti al Colosseo, in quest’area archeologica, che da una parte è una sfida, perché davanti a tanta bellezza uno potrebbe bloccarsi, dall’altra può suscitare a guardare ciò che è bello e cercare dentro di sé – nel mio piccolo – e creare qualcosa che è anche bello.

Perché Roma è una città infedele?
Intendo dire che è una città difficile in cui vivere per tanti motivi ma non dovuti soltanto ai romani, agli italiani o al sindaco. È una città molto visitata, molto frequentata: da una parte il turista dà vita, dall’altra la viola. Quando parla di fedeltà o infedeltà è questo, non tanto in senso politico o critico. Ma è una città che fatica a restare fedele a sé stessa, tutti questi continui interventi e lo sforzo immenso per mantenerla. Poi nonostante tutto è un miracolo, perché pur con tutto il caos che ci circonda non perde mai il suo splendore. Roma, guardando i monumenti è conservata benissimo, ma da un altro punto di vista sappiamo quanto fatica questa città a stare in piedi, no? A dover tappare le buche, lo smaltimento dei rifiuti oppure i mezzi pubblici…

Faticano anche le persone.
Certo. Nel convento dove vivo ci si riconcilia con la città, la sua bellezza la vediamo ad una certa distanza, e questa cerca distanza, ti permette di riscoprire quest’amore.

La contemplazione è la via per l’amore…
Lo stato di consapevolezza è necessario, perché noi viviamo alienati, io per primo, che significa vivere non presenti a sé stessi. La contemplazione è quello stato in cui si è consapevole di ciò che si è, di ciò che si ha davanti, si vive la vita e non si è vissuti dalla vita. Però è faticoso, penso, essere mezz’ora al giorno cosciente di quello che faccio: il resto è vivere alienati, purtroppo. La fatica dell’uomo è di ricontattare il proprio sé ed essere consapevole, esser presente alle cose che fa e compie. È una fatica dell’essere umano.

 

 

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