Una città presa a calce
Agosto 2019: la Regione Lazio approva finalmente, dopo vent’anni di attesa, il Piano Territoriale Paesistico Regionale, uno strumento efficace per la gestione e la tutela del territorio.
Curiosamente, i primi a salutare entusiasticamente il nuovo piano non sono, come ci si aspetterebbe in un caso simile, gli ambientalisti (che anzi entrano sul piede di guerra), ma i costruttori romani: “Bene il nuovo Ptpr, un passaggio fondamentale per avere un quadro di certezze in una materia delicata, come quella della tutela ambientale”, dichiara a caldo alla stampa Nicolò Rebecchini, presidente dell’Acer, l’associazione dei costruttori di Roma e Provincia.
Curiosamente, i primi a salutare entusiasticamente il nuovo piano non sono, come ci si aspetterebbe in un caso simile, gli ambientalisti (che anzi entrano sul piede di guerra), ma i costruttori romani: “Bene il nuovo Ptpr, un passaggio fondamentale per avere un quadro di certezze in una materia delicata, come quella della tutela ambientale”, dichiara a caldo alla stampa Nicolò Rebecchini, presidente dell’Acer, l’associazione dei costruttori di Roma e Provincia.
Come mai questa reazione così positiva? E perché, contemporaneamente, associazioni civiche ed ecologisti gridano allo scandalo?
Forse perché, dal piano approvato, pare escluso il centro storico di Roma. Paradossalmente, proprio nell’area più importante del territorio regionale, in quel cuore dell’Urbe che è patrimonio Unesco, nessun vincolo specifico è previsto, tranne la richiesta di un parere (non vincolante) alla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici. Tradotto in soldoni, significa che eventuali interventi edilizi di tipo speculativo, a Roma, potrebbero incontrare meno ostacoli che nelle altre città.
Perciò, una volta approvato il Ptpr, da parte di numerosi esponenti politici (da Angelo Bonelli a Stefano Fassina, passando per l’ex ministro della cultura Bonisoli) ecco piovere una montagna di critiche contro il provvedimento. Critiche che riguardano aspetti diversi del piano regionale, ma che convergono tutte su un punto comune: “Questo è l’ennesimo regalo al partito degli immobiliaristi”.
Già, il “partito degli immobiliaristi”. Di “partito degli immobiliaristi” a Roma si parla da tempo immemorabile. Tanto che proprio nella Capitale è nato quel termine spregiativo che descrive la categoria, quel “palazzinari” atto a indicare costruttori senza scrupoli, che spesso (a torto o a ragione) risultano al centro di scandali, di lotte fra famiglie concorrenti, di intrecci con la politica e, in qualche caso, anche con la malavita.
C’è chi dice che a Roma tutto si fa e si disfa solo in base ai loro voleri, anche i sindaci.
È indubbio che le grandi famiglie di immobiliaristi romani siano, da lunghissimo tempo, a stretto contatto con il potere, quello che conta, al punto da poter condizionare le scelte non solo della politica, ma anche dell’informazione. È noto, tra l’altro, che il più grande quotidiano cittadino, “Il Messaggero”, sia di proprietà proprio di quel Francesco Gaetano Caltagirone, re del mattone, per anni azionista anche di Acea. E c’è chi dice che ci sia anche il suo zampino nello scoppio di un recente scandalo edilizio: l’inchiesta relativa al progetto sullo stadio della Roma a Tor di Valle, che ha portato all’arresto di Luca Parnasi, altro grande immobiliarista capitolino, suo concorrente.
Certo è ben strano che, in una città come Roma, che da quarant’anni non aumenta la propria popolazione (anzi c’è stata una leggera flessione rispetto agli abitanti censiti nel 1981), si continui a costruire al ritmo di circa 10 metri cubi l’ora, come certifica l’Ispra, l’istituto superiore per la protezione e la ricerca, un ente statale. Viene dunque spontaneo chiedersi: costruire cosa e per chi, se gli abitanti diminuiscono?
Nonostante ciò, il grave problema abitativo delle fasce più deboli cittadine è ben lontano dall’essere risolto. E’ evidente, quindi, che qualcosa in questo meccanismo non torni e che nascano diffidenze e sospetti contro amministratori e costruttori. Diffidenze, anche queste, non nuove.
A qualcuno di voi il cognome Rebecchini, quello dell’attuale presidente dei costruttori, avrà infatti ricordato quel Salvatore Rebecchini (nonno del presidente Acer), che fu sindaco della città negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, anni di grande espansione urbanistica. Rebecchini fu costretto però nel 1956 a non ricandidarsi, a seguito dello scandalo nato per alcune speculazioni operate a Roma dalla Società Generale Immobiliare e da lui politicamente sostenute.
Il periodo di Rebecchini fu segnato da uno sviluppo urbanistico forsennato e disomogeneo, di forte commistione fra affari edilizi e politica, che fu ribattezzato da qualcuno “il sacco di Roma”.
Forse, chi lo chiamò così ricordava che anche il vero “sacco” quello avvenuto 400 anni prima ad opera dei Lanzichenecchi, ebbe fra le cause proprio il fatto che, già nel Cinquecento, per la prima volta nella storia della città, le scelte politiche romane furono condizionate da esigenze costruttive che azzerarono ogni altra necessità, non tennero conto delle conseguenze e portarono di lì a poco la città (e l’intera Europa) alla catastrofe.
La Fabbrica di San Pietro
“Fabbrica di San Pietro” è oggi un modo di dire, il sinonimo di cantiere eternamente aperto ed estremamente costoso, che succhia risorse come un pozzo senza fondo. In effetti, la Fabbrica di San Pietro fu davvero questo: un progetto edilizio ambizioso, interminabile e, soprattutto, costosissimo. Un buco nero che per anni fagocitò tutte le finanze della città di Roma. Fu quello il primo grande affare edilizio della storia dell’Urbe, capace di provocare un gigantesco scandalo, che andò ben oltre i confini romani.
Agli inizi del XVI secolo, infatti, i costi di quell’enorme cantiere per la nuova basilica e i nuovi palazzi vaticani, erano lievitati a tal punto che il Papa, non riuscendo più a farvi fronte, decise di chiamare in aiuto l’intera popolazione cristiana.
L’idea che il pontefice tirò fuori per sostenere quei costi esorbitanti, fu tanto semplice quanto geniale: furono emanati provvedimenti in base ai quali chi avesse lasciato un contributo per la Fabbrica di San Pietro, avrebbe potuto ottenere sconti sulle pene previste in Purgatorio per sé e per i propri cari, anche quelli già defunti. Maggiore il contributo in denaro, maggiori gli anni di patimento che sarebbero stati depennati. In qualità di vicario di Dio sulla terra, il Papa avrebbe garantito affinché il Signore tenesse conto di tali “facilitazioni”.
Quella che sarebbe passata alla storia come “la compravendita delle indulgenze” nacque quindi al fine di finanziare i costruttori dell’epoca. Era una strategia apparentemente efficace e a costo zero, capace di portare contributi da tutto il mondo, contributi che lì per lì diedero un grande impulso alla costruzione della nuova basilica e dei nuovi palazzi. Un intero quartiere, progettato dai massimi artisti e architetti mondiali, stava per nascere: il Vaticano. Nessuno, però, riusciva ancora a prevedere le polemiche che ne sarebbero sorte e il conseguente “effetto domino” che avrebbe, di lì a poco, stravolto la storia della città e dell’intera Europa.
In quegli anni, infatti, soggiornava a Roma anche un monaco tedesco. Era un personaggio del tutto sconosciuto, un insegnante di teologia dell’università di Wittemberg, estraneo ai grandi centri di potere dell’epoca, un certo Martin Lutero. Fu proprio lui, una volta rientrato in Germania, il primo a sollevare dubbi sulla liceità morale di quella operazione, un’operazione che oggi potremmo definire di “crowdfunding”, che lascia intravedere una mentalità papale molto attenta al “marketing”, ma certo molto poco “mistica”.
Quei dubbi furono ben presto condivisi da larga parte della popolazione europea, tanto da generare in pochi anni uno scisma violentissimo, che attraversò l’intera cristianità; una divisione epocale, tutt’ora esistente: quella fra cattolici e protestanti. Una divisione nata proprio perché, secondo Lutero, il Papa non aveva alcun diritto di offrire premi ultraterreni in cambio di denaro, tanto meno se questa era solo una scusa per finanziare i costi di nuovi edifici. Fu una scissione talmente improvvisa e lacerante, che causò secoli di guerre, di violenze, di rappresaglie, di colpi di stato.
In questo clima, tra lotte violentissime che coinvolsero l’intero continente, nel 1527 le truppe luterane dei Lanzichenecchi entrarono a Roma e, in una città che all’epoca contava appena 55.000 abitanti, provocarono la morte di 20.000 persone (quasi la metà dell’intera popolazione), oltre alle vittime che in seguito furono decimate da un’epidemia di peste portata proprio dalle truppe straniere, che per mesi saccheggiarono l’Urbe, dando sfogo a tutto il loro odio nei confronti del centro del cattolicesimo.
Alla città di Roma ci vollero decenni per sollevarsi da quella catastrofe. Una catastrofe evitabilissima (almeno a guardarla oggi), nata, in fondo, al solo fine di retribuire i costruttori impegnati nella realizzazione del nuovo quartiere Vaticano.
Ad ogni modo, riguardo ai danni compiuti a Roma in nome dell’aiuto pubblico ai costruttori, il peggio, forse, doveva ancora venire.
C’era una volta una villa
“È proprio dei nostri nuovi tempi che, quando ci sia da guadagnare milioni, in un batter d’occhio le condizioni mutino e si passi ogni misura: senza che nessuno ci veda niente di straordinario, o che apparisca anche possibile il porvi riparo. Da tempo è venuta la furia, la smania di fabbricare a rotta di collo. Alcune società di capitalisti hanno acquistato in blocco i terreni e intrapreso a coprirli di case. Case smisuratamente alte, fatte in modo da trarre eccessivo profitto dal suolo, addossate le une alle altre, spesso già piene di inquilini ai piani più alti mentre gli inferiori non sono ancora finiti. La più parte senza nessuna architettura”.
L’autore di queste righe è Hermann Grimm, figlio di uno dei famosi fratelli Grimm (i creatori di Hansel e Gretel, di Biancaneve e di mille altre favole), innamorato della Città Eterna, nella quale si trasferì a vivere. Nel 1886, nel suo libro “La distruzione di Roma”, usando termini che ci sembrano ancora attualissimi, Grimm denunciò il sacco edilizio perpetrato nella capitale all’indomani dell’annessione al Regno d’Italia. Una devastazione che portò, tra le altre cose, alla scomparsa dell’immenso parco di Villa Ludovisi, sacrificato per fare spazio al quartiere che oggi circonda via Veneto.
“La villa Ludovisi giace (oggi purtroppo bisogna dire giaceva) al limite orientale della città, a Porta Salaria. Toccava le mura di Aureliano che ne formavano il confine a levante. Bellissimi viali ombrosi di querce e allori, qua e là frammezzati da alti e larghi pini, tranquillità e aria balsamica, ne facevano uno di quei luoghi di Roma che erano nominati i primi quando si discorreva degli incanti dell’eterna città. Sì, io credo che se guardando tutta la terra si fosse domandato qual era il più bel giardino del mondo, coloro che conoscevano Roma avrebbero risposto senza esitare: la villa Ludovisi”.
A perpetrare lo scempio di quella villa, luogo amato da Goethe e da Stendhal, da Henry James e da Gabriele D’Annunzio, fu proprio quella Società Generale Immobiliare che settant’anni dopo (come se il tempo si fosse congelato) ritroveremo protagonista degli scandali edilizi legati alla Roma del sindaco Rebecchini.
Complici dell’Immobiliare furono anche il principe Boncompagni Ludovisi, proprietario dei terreni, che avviò la lottizzazione dell’area (nonostante il piano regolatore del 1882 lo vietasse) e l’allora sindaco Leopoldo Torlonia, che avallò l’operazione.
Analizzare le modalità con cui scomparve questa “perla di Roma” (di cui i romani oggi hanno completamente perso la memoria), disegnata nel Seicento dall’architetto dei giardini di Versailles, André Le Notre, è indicativo di tutto il percorso che avrebbero preso (fino ai nostri tempi) le successive vicende edilizie romane.
Tutto ha inizio un giorno del 1885, quando il principe Rodolfo Boncompagni Ludovisi invita nella sua villa lo storico tedesco Theodor Mommsen, per fargli dono di una lunga serie di dagherrotipi che ritraggono i viali, le statue, i giardini e i casini del parco: “Conservi queste immagini, perché la mia villa presto dovrà sparire”.
Il principe ha infatti già deciso di vendere i terreni, al fine di far edificare un moderno quartiere. A ostacolare i suoi propositi è però il nuovo piano regolatore romano, che vieta la nascita di edifici in quell’area. Don Rodolfo ha un bisogno urgente di denaro e, deciso a superare ogni ostacolo, chiede disperatamente aiuto al sindaco di Roma, il principe Leopoldo Torlonia.
Fra gentiluomini ci si capisce al volo ed è perciò proprio il sindaco a suggerirgli come aggirare il vincolo: se tutti i lavori stradali e fognari del nuovo quartiere fossero a carico dei privati, il Comune, non avendo costi da sostenere, non farebbe obiezioni. La Società Generale Immobiliare si offre subito per garantire l’operazione.
Così, il 29 gennaio 1886 viene firmata la convenzione fra il Comune di Roma, la Società Immobiliare e il Boncompagni Ludovisi. I lavori iniziano immediatamente. Villa Ludovisi è perduta per sempre, sotto gli occhi esterrefatti di Gabriele D’Annunzio, che così scrive in quei giorni: “I giganteschi cipressi ludovisii, quelli dell’Aurora, quelli medesimi i quali un giorno avevano sparsa la solennità del loro antico mistero sul capo olimpico del Goethe, giacevano atterrati. Sembrava che soffiasse su Roma un vento di barbarie”.
Come spesso accade nelle vicende italiane, il dramma assunse presto anche i contorni della farsa: poco tempo dopo, infatti, si concluse con successo l’iter di una procedura avviata in precedenza, che proclamò villa Ludovisi monumento nazionale. Peccato che la villa, intanto, già non esistesse più.
Storie d’amore e d’anarchia
L’esempio di Villa Ludovisi diventò immediatamente un punto di riferimento, copiato da tutti i costruttori romani.
Grazie alla facilità con cui si dimostrava possibile aggirare i vincoli, i dettami del piano regolatore (sia quello del 1882, sia i successivi) a Roma non furono mai tenuti in grande conto. A fine ottocento, rapidamente, si completò via Nazionale, si edificò la zona di Piazza Vittorio, nacquero le prime case di corso d’Italia e i quartieri lungo via Nomentana. Si costruì anche oltre le mura cittadine. Si avviò la nascita del nuovo quartiere Prati. Il tutto fuori piano, in assoluta anarchia.
Stato e Comune restavano semplicemente ad assistere, a volte impotenti, altre volte conniventi.
Come disse il deputato Angelo Valle: “Noi dichiarammo che non avremmo mai riconosciuti i quartieri costruiti fuori piano, né accordato i servizi pubblici. Ma si capisce che certe minacce è facile farle a parole, ma non è facile mantenerle; e quando bene o male quei quartieri cominciano a sorgere, il Comune non può esimersi da certi servizi pubblici come l’illuminazione, la spazzatura e talora dal fare le fogne dove mancano”.
Cominciò in quel momento la storia di uno sviluppo di Roma senza alcuna strategia, una città in mano a più o meno improvvisati palazzinari, che accumularono enormi fortune in poco tempo, spesso finanziate da crediti “allegri” e un po’ sconsiderati, ottenuti anche grazie a connivenze politiche. Una città in cui, a momenti di febbrile sviluppo, seguirono però immancabili le crisi, con anni di stallo e desolazione.
L’assenza di programmazione ebbe sempre un ruolo determinante. Si costruirono palazzi e quartieri senza considerare le effettive necessità, spesso inarrivabili per le tasche del popolo, luoghi che perciò restavano a lungo desolatamente vuoti. In mancanza di nuova liquidità, i cantieri venivano allora abbandonati, ancor prima di essere ultimati, con le strade in disordine e le vie di comunicazione interrotte. A quel punto, però, arrivava l’ente pubblico in soccorso, per fornire servizi. I palazzinari tiravano il fiato e il gioco ricominciava, come in una giostra.
Centocinquanta anni dopo il gioco continua ad essere lo stesso. Roma continua ad essere ovunque un’infinita Villa Ludovisi, fatta di cantieri sempre nuovi, capaci di coprire secoli di storia ed ettari di verde, in una patologica “coazione a ripetere” che pare non avere fine, ripetuta da nuovi principi Boncompagni, da nuovi sindaci Torlonia, da nuove Società Immobiliari, che cambiano nome e volto, ma non meccanismo.
Però, in questa perenne anarchia, incurante delle regole, quello che poco a poco viene meno è l’amore per la propria città. Sia l’amore “sacro” per le sue bellezze, sia quello “profano”, quello che permette di riprodursi, di amare e moltiplicarsi. I numeri in calo sui residenti capitolini stanno a testimoniarlo. A nulla servono decine di nuovi quartieri, o enormi centri commerciali, se poi risultano incapaci di attrarre nuove forze, nuove energie, nuove risorse produttive e, soprattutto, di dare un senso di appartenenza cittadina, di identità, di orgoglio, stimolando idee, generando emozioni.
Senza emozioni, senza amore, una persona inaridisce. Ma questo è vero anche per una città, che così muore lentamente. Lo fa poco alla volta, senza darlo a vedere, quasi distratta. Anche una città come Roma, apparentemente eterna, però da troppo tempo immobile, snaturata e impietrita sotto secoli di calce e di cemento.
[L’immagine del titolo è un particolare di una foto di Gianni Dominici pubblicata su Flickr.com con licenza creative commons]