Un sacco bello (e trasparente)

Centocinquantatre.
Lo so che questo numero dice poco alla maggior parte di voi, ma è quello dell’ordinanza comunale che impone ai romani l’utilizzo di sacchi trasparenti per i rifiuti, al fine, si legge, di “una maggiore responsabilizzazione dei cittadini alla corretta effettuazione della raccolta differenziata”.
5 agosto 2019, la data di pubblicazione. Da 25 a 500 euro, le multe previste.

Lo sapevate? Forse sì, forse no. Piuttosto scarsa, infatti, è stata la comunicazione in merito fornita, complice anche il clima ferragostano.
Anche per questo, con prevedibile celerità, insieme alla sua entrata in vigore, con l’ordinanza sono arrivate le immancabili polemiche.
Alcune si sono concentrate sulla tempistica. Obiezioni analoghe a quelle sentite anche riguardo la crisi di governo scoppiata negli stessi giorni: “Ma come? Proprio ad agosto, durante le ferie?”
Altre, invece, si sono appellate alla tutela della riservatezza personale. 

C’è chi non si lamenta solo della scarsa informazione, ma anche del fatto che il Comune non abbia consegnato gratuitamente ai cittadini, almeno in una prima fase, i sacchetti d’ordinanza

In base a un provvedimento del 14 luglio 2005, emanato dal Garante della Privacy, pare infatti che l’uso di sacchetti trasparenti sia vietato quando la raccolta della spazzatura avviene porta a porta, per non consentire agli estranei di collegarne il contenuto ai rispettivi “proprietari”. Questo poiché alcuni rifiuti, se visibili, potrebbero risultare “imbarazzanti e scabrosi”, rivelare le condizioni di salute di una persona, o il suo tenore di vita e le sue possibilità economiche.

A ingarbugliare un po’ le cose ha pensato anche il Municipio III di Roma (zona in cui il porta a porta è presente già da diversi anni), che, rifacendosi proprio alle disposizioni del Garante della Privacy, ha criticato l’ordinanza, aprendo un primo scontro fra enti.
In una lettera inviata alla Sindaca Virginia Raggi, Francesco Pieroni, assessore ai rifiuti del Municipio III, ha così stigmatizzato la decisione: “L’ordinanza espone decine di migliaia di cittadini alla visione completa, quotidiana, del contenuto dei loro sacchetti dei rifiuti”.
Poi, lamentando errori presenti in quella famigerata “centocinquantatre”, ha aggiunto, anche tramite social e mezzi d’informazione: “Questo provvedimento va modificato al più presto”. 

Per completare il quadro, un terzo ordine di critiche prende infine le mosse da quelle che vengono additate come carenze logistiche e organizzative. C’è chi non si lamenta solo della scarsa informazione, ma anche del fatto che il Comune non abbia consegnato gratuitamente ai cittadini, almeno in una prima fase, i sacchetti d’ordinanza (operazione che, comunque, non sarebbe certo senza costi per le già misere casse comunali). 

In effetti, c’è da dire che non è così facile trovare questo tipo di sacchetti nei normali negozi e supermarket, colti un po’ impreparati dal cambiamento.
A una mia personalissima verifica, ho dovuto penare più di quanto immaginassi per accaparrarmeli. Il mio primo “assalto” è andato a vuoto: “No, ci spiace, abbiamo solo quelli neri”. Il secondo ha avuto maggiore successo, anche se ho notato una forte differenza di prezzo fra i classici sacchi scuri e quelli trasparenti (una differenza sull’ordine del 40%-50% in più). Al terzo tentativo la differenza di prezzo era ancora presente, ma era scesa a un più tollerabile 20%-30%.

Foto di Marco Valenti diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Incuranti di ogni obiezione e polemica, gli agenti del NAD, Nucleo Ambiente e Decoro della polizia di Roma Capitale, si sono comunque messi subito all’opera per far rispettare le nuove norme e, ligi al dovere, hanno scovato i rei.
Il primo trasgressore è stato individuato nell’XI Municipio (zona Portuense-Magliana), sorpreso mentre gettava i rifiuti nell’abituale sacco nero, anziché in quello trasparente d’ordinanza.
Al momento, in tutta Roma, non risultano comminate altre sanzioni oltre a quella, ma intanto la notizia ha già fatto il giro della città. Un classico esempio del vecchio detto romano: “a chi tocca nun se ‘ngrugna”.

Certo è che, nonostante il soccorso della saggezza popolare, immagino che il malcapitato cittadino un po’ ingrugnato ora lo sia. E forse starà imprecando e raccontando la vicenda agli amici, più o meno in questi termini:

Pagà dieci scudacci de penale
io pover’omo che nun ciò un quadrino!
Io che nemmanco posso beve vino
antro che quanno vado a lo spedale!
Eppuro me toccò a buttà un lustrino
pe ffamme stenne drent’ar momoriale
la raggione da disse ar Tribbunale
de le Strade, indov’è quell’assassino.
Je ce dicevo: “Monziggnore mio,
Quanno lei trova er reo, voi gastigatelo:
ma er monnezzaro nun ce l’ho ffatt’io”
E ssai che m’arispose quer Nerone?
“Questo nun me confìnfera: arifàtelo:
Ch’io nun vojo sentì ttante raggione”.

Ecco, però questa, anche se parrebbe esserlo, non è l’accorata difesa dello sfortunato abitante della Magliana sanzionato dai NAD, ma è il testo di Er monnezzaro provibbito, un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, scritto nel non più recentissimo 1834.
Segno che il problema dei rifiuti, le ordinanze per risolverlo, i comportamenti virtuosi richiesti ai cittadini dalle autorità ma poco attuati e le polemiche connesse, sono antichi quasi quanto la nostra città.

Foto di Fabrizio Lonzini diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

Per ordine di Monsignor Illustrissimo
Presidente delle strade

A testimoniare l’annoso problema della “monnezza”, alcune targhe, in maggioranza del Settecento, presenti in varie zone del centro di Roma, riportano delle scritte più o meno tutte di questo tenore: “Per ordine di Monsignor Illustrissimo Presidente delle Strade, è fatto divieto a chiunque di fare mondezzaro in questa via”, con a seguire l’elenco delle pene comminate ai trasgressori.

Ve ne sono a decine, in diversi punti della città, di diversi tipi, di diversi anni, quasi tutte realizzate a nome del “Presidente delle Strade”. cioè l’equivalente di un Assessore all’Ambiente, colui il quale, per conto dell’autorità, doveva occuparsi della salubrità pubblica della città.

Il numero di targhe secolari, tutt’ora presenti, che intimano il divieto di gettare immondizia, è già da solo una prova dell’entità del “problema rifiuti” a Roma e delle difficoltà avute dalle amministrazioni capitoline nel trovare una soluzione, fin dai secoli passati.

Nell’antica città imperiale, quella dei Cesari, come spesso avviene nelle società in fase di forte espansione economica, il problema dei rifiuti si risolse in modo spiccio, con la creazione di grandi discariche di “indifferenziata” subito fuori le mura. Una sorta di Malagrotta ante litteram.
D’altronde i rifiuti dell’epoca erano fatti quasi esclusivamente di materiali relativamente biodegradabili (legno, argilla, ecc.). Nessun problema di scorie radioattive, niente isole di plastica in mezzo al Pacifico (tra l’altro un mare allora sconosciuto) o al Tirreno.
Ciò nonostante, a Roma, l’accumulo di rifiuti fu tale da creare in città una vera e propria montagna artificiale. Quella montagna di vasi rotti e di altro materiale che prese il nome di Mons Testaceus, cioè il Monte dei Cocci, un’altura ancora oggi presente a Roma, in quella che adesso, proprio per questo, è nota come la zona di Testaccio.

Già dal Medio Evo si pose poi il problema del riciclo dei materiali di scarto. Ciò avvenne non per l’avvento di una mentalità ambientalista, ma perché le mutate condizioni economiche della stragrande maggioranza della popolazione e la scarsità di mezzi rendevano indispensabile “non buttare via niente”. Nacquero perciò figure come quella dello “stracciarolo” (un mestiere sopravvissuto fino a pochi decenni or sono), cioè colui che andava in giro per la città a prendere oggetti non più in uso, per separarne le materie prime di cui era composto, al fine di poterle riutilizzare.

La fate accusí ffranca er mett’a pparte / co un’occhiata li vetri e li ferracci / a nnun confonne mai carte co stracci / e a ddivide li stracci da le carte?”.
Sembrano i nostri dubbi quando ci troviamo di fronte ai cassonetti: “Questo va nella carta o nella plastica? E quest’altro nell’umido o nell’indifferenziata?”, ma è ancora una volta una “pennellata” del Belli, che descrive le difficoltà di quel mestiere di straccivendolo, poco considerato socialmente, ma utilissimo.

Il vero problema delle immondizie domestiche era però creato dagli scarti alimentari, cioè da quello che oggi consideriamo “l’umido”. Fino all’Ottocento, era comune abitudine dei romani disfarsi delle immondizie domestiche semplicemente portandole in strada e abbandonandole al primo angolo incontrato. Si creavano così dei veri e propri cumuli, i cosiddetti “monnezzari”.

Il numero di targhe secolari, tutt’ora presenti, che intimano il divieto di gettare immondizia, è già da solo una prova dell’entità del “problema rifiuti” a Roma e delle difficoltà avute dalle amministrazioni capitoline nel trovare una soluzione, fin dai secoli passati.

A ciò si aggiungeva il fatto che le strade erano ricoperte da un tappeto di fango ed escrementi equini. Il fetore del materiale organico in putrefazione e le derivanti malattie, erano una piaga che avvolgeva tutta la capitale.
Ecco perciò che, soprattutto fra il Seicento e il Settecento, cominciarono ad essere emanati editti e decreti per evitare la creazione di nuove piccole discariche cittadine, con punizioni pesanti in caso di contravvenzione al divieto: da una multa in denaro, alla carcerazione, fino alle pene corporali. Entità e modalità venivano decise a discrezione del già citato Presidente delle Strade.

Le sanzioni colpivano tanto i mandanti quanto gli esecutori materiali del reato: questi ultimi (spesso la servitù) erano solitamente soggetti alle pene corporali, mentre i primi (solitamente i padroni) alle multe in denaro.
Inoltre, per stimolare la popolazione alla delazione, alcuni editti contenevano una norma, in base alla quale una parte della multa versata dal reo sarebbe stata versata all’accusatore.
Ma il sistema, a quanto pare, non funzionò mai alla perfezione, visto che per oltre centocinquanta anni e fino all’unità d’Italia, il governo romano fu costretto a emanare editti sempre nuovi, dimostrando in tal modo che i precedenti erano stati quantomeno poco efficaci.

Fare il gran rifiuto?

E così ci riavviciniamo ai nostri giorni.
Se, nel corso di tutto il Novecento, il problema dei rifiuti è stato delegato alle strutture pubbliche incaricate della nettezza urbana, con un coinvolgimento dei cittadini limitato al pagamento delle tasse e al conferimento dell’immondizia nei bidoni presenti in città, oggi, con la grande crisi ambientale in atto, con l’aumento esponenziale e la non biodegradabilità della maggior parte dei rifiuti prodotti, accumulatisi in enormi quantità non solo nelle discariche ma un po’ ovunque, le possibili soluzioni al problema tornano a prevedere un coinvolgimento attivo anche dei singoli cittadini, con sistemi di premio e di punizioni individuali, proprio come nel Seicento e nel Settecento.

L’ordinanza numero 153 del Comune di Roma, idealmente, va in questa direzione e ha molta più vicinanza con gli editti emanati da Monsignor Illustrissimo Presidente delle Strade che non con i sistemi adottati nell’ultimo secolo, come il pagamento della Tari e delle altre tasse legate al ciclo dei rifiuti, che consentono il funzionamento e il sostentamento delle società pubbliche preposte alla raccolta e allo smaltimento. 

Discarica a Montesacro, negli anni 60. Foto di Silvio Comel diffusa su Flick.com con licenza creative commons

Si tratta di soluzioni “a pioggia”, che rischiano però di deresponsabilizzare i singoli, ideate per il tipo di sistema di trattamento dei rifiuti efficace nel Novecento, ma che però presenta non pochi difetti di fronte alla devastante crisi ambientale di oggi. La quantità di rifiuti prodotti nel secolo scorso, infatti, permetteva ancora delle responsabilità (e delle discariche) “indifferenziate” che, con la produzione attuale, risultano essere, invece, insostenibili.

L’introduzione del concetto di raccolta differenziata e di riciclo dei rifiuti, avviato a Roma alla fine del Novecento, ha cominciato a spostare l’ordine logico delle cose. I romani si sono trovati, poco alla volta, ad essere trasformati in degli “stracciaroli 2.0”, obbligati di nuovo a distinguere “co un’occhiata li vetri e li ferracci, a nnun confonne mai carte co stracci”. Un primo passo verso un ritorno al coinvolgimento personale e non più solo collettivo nella gestione dei rifiuti urbani.
La novità di agosto delle buste trasparenti è il passo successivo, che finisce per responsabilizzare ciascuno di noi in modo più deciso. 

Questa ordinanza è, dunque (senza volerlo), un vero cambio di paradigma, un passaggio in cui la responsabilità individuale torna al centro del sistema e avvicina il nostro mondo più a quello che ha preceduto la rivoluzione industriale (il Sei-Settecento dei Monsignori Illustrissimi Presidenti delle Strade), che non a quello che hanno conosciuto i nostri padri nel corso degli ultimi trenta, cinquanta, novanta anni.
Una piccola, silenziosa, rivoluzione. Una micro “decrescita felice”. Probabilmente necessaria e apparentemente innocua.
Apparentemente. 

Già, perché i contrasti che si sono creati fra la nuova ordinanza comunale e le precedenti norme emanate dal Garante per la Privacy, sono un segnale di allarme molto serio, molto più di quanto si pensi. Sono il segnale di un vasto conflitto oggi in atto: quello fra le idee novecentesche, le idee con cui tutti noi siamo cresciuti (relative alla gestione dei rifiuti, ma non solo) e le nuove esigenze che la crisi ecologica in corso sta facendo emergere. 

Il concetto di privacy, per fare un esempio, è proprio uno dei tanti retaggi di quella cultura del Novecento di cui parlavo poco fa. Un retaggio positivo, certamente. Ma che va ora a cozzare contro un’esigenza altrettanto fondamentale e, per molti versi, superiore: la salvaguardia del pianeta. 

Foto di Alessandra Giansante diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

Si, perché conferire i rifiuti in una busta trasparente, lascerà forse capire ai vicini quali medicine prendiamo e che tenore di vita abbiamo (come se non lo intuissero già), ma al tempo stesso aiuta la città a differenziare meglio, quindi ad aumentare la possibilità di riciclare i materiali, perciò, in ultima analisi, a non soffocare il mondo sotto un’infinita coltre di plastica e immondizia.

A questo punto cosa fare? Rifiutare la norma proposta dal Comune, in nome dell’inviolabilità della privacy e della difesa dei diritti individuali? Oppure sacrificare i nostri diritti, in nome di un superiore bene collettivo?

In piccolo, questa storia ferragostana, questa banale vicenda romana sul colore dei sacchi dell’immondizia, è il paradigma inconsapevole di una storia molto più grande.
È il simbolo presente di una storia antica tanto quanto l’uomo: quella lotta fra i diritti dell’individuo e il bene della società, fra le esigenze del singolo e quelle del gruppo; quella lotta combattuta già da Prometeo contro Zeus, da Atene contro Sparta.

Non so chi vincerà questa lotta. Non so nemmeno chi sia il buono e chi il cattivo. So però che stiamo vivendo un vero “scontro d civiltà”, un passaggio di epoca, che anche piccoli episodi come questo stanno a dimostrare.

Non sapendo per chi e per cosa parteggiare, di fronte all’incertezza, mi piace comunque pensare al colore di quei sacchi d’immondizia, prima e dopo l’ordinanza, per immaginarli come se fossero un simbolo.  Forse, dal nero cupo di un recente passato, si sta andando, faticosamente e non senza resistenze e dubbi, verso la luce trasparente di un imminente futuro.
Un futuro un sacco bello. Forse solo immaginario.

[La foto del titolo è di Rev. Santino, ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

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