La Capitale è spacciata

Purtroppo ci è scappato il morto.
Per questo, come spesso avviene dopo una vicenda tragica, i riflettori dei media e dei social si sono accesi negli ultimi giorni su mondi fino a poco tempo fa lasciati in ombra e praticamente sconosciuti.
Seguendo quanto evidenziato dall’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, un omicidio che, a quanto emerso, pare originato da un acquisto di cocaina non andato a buon fine, molte autorevoli testate hanno cominciato a fare ricerche, inchieste e reportage sullo spaccio di droga che si svolge nelle vie del centro di Roma, un traffico sempre meno nascosto e sempre più apertamente inserito tra i turisti e la movida romana.  Ci ha pensato “La Stampa”. Ci ha pensato anche “Il Messaggero”. Ci stanno pensando tanti altri giornali, noti e meno noti.

Tra dati ufficiali del Ministero dell’Interno, interviste più o meno rubate a piccoli e grandi spacciatori, il quadro che ne esce fuori sembra essere quello di un’attività abbastanza diffusa e fiorente, che coinvolge alcune migliaia di “occupati del settore”, fra pusher, segnalatori, intermediari.
Un’attività che molto spesso si affianca a quella turistica e a quella del divertimento notturno, poiché strettamente legata ai quartieri dove il movimento di persone è maggiore: dal Pigneto a Trastevere, da Ostiense a Campo de’ Fiori, dall’Eur a Ponte Milvio.
Turisti e popolo della notte sono i clienti più ricercati. “I migliori sono gli americani – dice ai giornalisti de “La Stampa” un pusher (che ovviamente resta anonimo) – pagano subito, non fanno storie e ritornano sempre”.

Di fronte a questo quadro, comincia a nascere un sospetto e una riflessione: e se questo traffico, formalmente illecito, stesse diventando uno dei principali motori dell’economia romana, perlomeno nelle aree prima menzionate?

È una domanda provocatoria, ma che trova anche qualche riscontro, visto il grande movimento di denaro che muove lo spaccio, non solo in via diretta, cioè per gli introiti economici che fornisce a chi è direttamente impegnato nel settore (i trafficanti, i pusher, gli intermediari), ma anche e soprattutto per l’indotto.

La movimentazione di persone che c’è in quei quartieri, incluse le persone attratte lì dal sogno infernale della droga, stimola infatti la nascita di nuovi locali, di discoteche, di ristoranti, di negozi, che a loro volta attraggono nuova gente e incrementano quindi anche il giro d’affari dello spaccio di quelle zone, in una sorta di circolo del vizio economicamente virtuoso.
Un quartiere come il Pigneto, fino agli anni novanta luogo degradato e poco frequentato (ma già allora centro di spaccio), che è oggi diventato il fulcro principale della movida romana, pieno di locali sempre nuovi, di bar, di pub, di ristoranti, senza che per questo i traffici di droga si siano allontanati da quelle vie (anzi, considerando le denunce di molti residenti, lo spaccio parrebbe addirittura accresciuto), sembra essere la rappresentazione plastica di questa teoria.
Lo spaccio, dunque, potrebbe paradossalmente essere un volano per ravvivare l’economia romana. Certo è una teoria azzardata, moralmente agghiacciante, ma che ha anche nobili e ben documentati precedenti storici.
Uno su tutti: la Repubblica Serenissima di Venezia, raro esempio di un’economia in crisi rilanciata dal vizio, dalla corruzione dei costumi, dall’immoralità.

Repubblica di Venezia – inizio secolo XVIII

Venezia, che era stata per tutto il Medioevo il principale centro di scambi fra oriente e occidente, diventando così una delle prime potenze economiche e politiche mondiali, aveva subito a partire dal XVI secolo un vero e proprio tracollo. A seguito della scoperta dell’America, le grandi rotte del commercio non passavano più per il Mediterraneo e la città lagunare aveva perso la sua centralità geografica e, con quella, la sua floridità economica.
All’inizio del settecento la situazione di crisi era così grave che occorreva a tutti i costi reinventarsi, pena l’irrilevanza politica prima e la scomparsa stessa della repubblica poi.
Ecco allora che qualche astuto imprenditore veneziano, sostenuto fortemente dai Dogi della Serenissima, ebbe un colpo di genio: se Venezia non poteva più essere il centro mondiale del commercio, poteva però facilmente diventare il centro mondiale del vizio. Il vizio avrebbe portato turismo e col turismo soldi per le casse dei cittadini e dello stato.
Certo, qualcuno sollevò obiezioni di carattere morale, ma la forza di Venezia era sempre stata quella di avere una mentalità pragmatica, mercantile, economicistica, poco avvezza a sottigliezze di tipo etico. Quelle obiezioni non ebbero seguito.
Così, grazie a leggi permissive, inconcepibili in qualsiasi altro stato europeo dell’epoca, si attuò un piano efficace, che trasformò rapidamente Venezia in una grande casa di piacere: gioco d’azzardo, vita notturna, alcol, prostituzione… tutto era tollerato, tutto era permesso, facendo di Venezia un enorme casinò, un gigantesco ed elegantissimo postribolo a cielo aperto, una bengodi per l’aristocrazia mondiale, che si recò lì in massa, per dare sfogo a ogni forma di sfrenatezza e di perversione, lasciando fiumi di denaro nella tasche dei veneziani.

Se oggi, quando pensiamo a Venezia, abbiamo soprattutto in mente uomini in abiti settecenteschi, col tricorno, la mantella e la maschera sul viso (la famosa “bautta”), questo è dovuto anche al fatto che una delle leggi approvate dalla Repubblica Serenissima, fu quella che, di fatto, permise di girare mascherati durante tutto l’anno e non solo nei giorni del carnevale, come invece avveniva altrove. Quale modo migliore per attrarre i “viziosi” di tutta Europa, che quello di permettere di non essere riconosciuti durante le proprie “notti brave”, restando così impuniti per eventuali malefatte?
La Venezia del settecento, ben rappresentata da quadri, da racconti e dalla figura simbolicamente perfetta di Giacomo Casanova (la cui vita trascorse equamente divisa fra alcove e galere), rimpinguò le proprie casse esanimi proprio grazie all’economia del vizio.

Roma – inizio secolo XXI

Se dunque tutto questo funzionò per la Venezia di trecento anni fa, perché non dovrebbe funzionare anche per la Roma dei giorni nostri?
La Roma di oggi sembra una città spenta, che pare aver smarrito la propria anima, in perenne emergenza, in perenne crisi. Il terziario, il commercio, il turismo, punti di forza della sua economia, da almeno un decennio hanno perso vigore. Molte aziende chiudono, molte serrande dei negozi si abbassano senza rialzarsi più. Solo la movida pare fare eccezione: locali, pub, ristoranti, enoteche, paninerie, gelaterie, sono gli unici luoghi ancora vitali, l’unico mondo in cui sembra ancora possibile fare reddito e movimentare l’economia.
Un romano di adozione come Paolo Sorrentino, pochi anni fa, ha raccontato tutto questo nel film italiano di maggior successo internazionale: “La grande bellezza”, un film dove si presenta una città che è ormai pura apparenza, senza morale, senza sogni, ma dalla sfrenata e compulsiva vita notturna.
E se fosse proprio questa l’unica via d’uscita? Abbandonare ogni etica e trasformarsi in un enorme paese dei balocchi, dove tutto è permesso, senza freni, senza remore, droga inclusa.
Qualcuno morirà per overdose, certo. Qualcuno per le losche vicende che sempre accompagnano certi traffici. Ma l’economia potrà rinascere. E con l’economia la città eterna.

Immagino che, a questo punto, a molti dei lettori si siano rizzati i capelli.

Davvero, vi chiederete, sto inneggiando a una rinascita economica romana che punti sul vizio e persino sullo spaccio della droga, da considerare come “risorsa” da incentivare, anziché combattere, con leggi e normative ad hoc? Il mio è un vero ragionamento o è solo una provocazione?

Prima di rispondere, faccio un passo indietro nella storia e torno nella Venezia del settecento, per vedere come finì quell’antico esperimento.

Repubblica di Venezia – fine secolo XVIII

Dopo decenni di “bengodi”, la Venezia di fine settecento è un territorio senza più anima, senza più forza e senza autorevolezza. In campo internazionale è totalmente isolata: anni di neutralità “furbetta” e un po’ doppiogiochista, atta a garantirle la benevolenza generale, sono riusciti invece a scontentare tutte le altre potenze europee, che guardano ormai a quella repubblica con antipatia, ritenendola un paese inaffidabile. All’interno dei confini veneziani, poi, le città dell’entroterra sono di malumore, si sentono abbandonate a loro stesse e sono sempre più spesso in contrasto con la capitale, unica città a cui sembrano riservate le attenzioni statali.
Perciò, quando le truppe napoleoniche scendono in Italia ed entrano nel territorio veneto (inizialmente non con l’intenzione di occuparlo, ma solo di passaggio per raggiungere Vienna e combattere gli austriaci), la Serenissima implode e crolla in pochissimo tempo, opponendo una debolissima resistenza. Una “morte” che non fa quasi rumore.
Non c’è, infatti, da parte dei veneziani, un’orgogliosa reazione, degna del loro passato, che faccia forza su un senso civico e dello stato capace di contrastare quel destino.
L’ultima seduta del Consiglio Maggiore di Venezia (l’equivalente del nostro parlamento), nonostante sia in gioco la sopravvivenza stessa della Repubblica, vede ben 700 consiglieri assenti su 1.200 aventi diritto. I veneziani neanche si scomodano più per partecipare a una riunione così decisiva, quasi che difendere la propria città e la propria storia non valga affatto la pena e sia motivo di vergogna.
La fine di quella millenaria potenza, arriva perciò rapida e silenziosa: un episodio della storia di cui pochi contemporanei si accorgono e di cui quasi nessuno si lagna.
Quando, anni dopo, con la caduta di Napoleone, tutti i confini d’Europa vengono ripristinati esattamente per come erano prima della rivoluzione francese, solo Venezia farà eccezione, sparendo per sempre dalle carte geografiche.

Foto di Antti diffusa con licenza creative commons su Flickr.com

 

Roma – secolo XXI

Se si guarda a quella lontana storia veneziana, l’idea di rilanciare un paese e un’economia rinunciando a ogni norma morale, non pare proprio una buona idea.
I vantaggi economici immediati, rischiano infatti di trasformarsi ben presto in una perdita d’identità e di senso di sé, che è un preludio alla debolezza, all’abbandono e persino all’autodistruzione.
Questo ci insegnano le vicende della Venezia del settecento e (considerando la storia come “maestra di vita”) questo vale anche per la Roma di oggi.
A dirla tutta, non vale solo per Roma, vale per qualsiasi città e paese che sacrifichi tutto, in nome di considerazioni di tipo economico.
Il “primato dell’economia” è infatti un dato globale, nazionale e internazionale. I concetti di “bene e male”, di “giusto e sbagliato”, relativi a una comunità e alle sue scelte politiche e sociali, vengono ovunque e sempre più spesso messi in relazione esclusivamente alla crescita del Pil, senza valutare troppo i possibili “effetti collaterali” di quelle scelte: quando il Pil aumenta tutte le scelte sembrano “giuste”, altrimenti appaiono “sbagliate”.
Ma ora è chiaro che l’estremizzazione di questo concetto, di questa “narrazione”, porta a considerare anche il sostegno ai pusher della movida romana, se questo aiuta il Pil e l’economia, come un valido elemento di “sviluppo”, di “crescita economica”, quindi come un elemento positivo.

Credo che questo concetto faccia orrore a molti di voi.
Bene, ora posso confessarvelo: questo concetto fa orrore anche a me.

Eppure è proprio questa l’idea di fondo che fu alla base delle scelte fatte dalla Venezia del settecento.
Ed è sempre questa l’idea di fondo che c’è dietro alle scelte di uno stato contemporaneo che, ad esempio, dia sostegno a fabbriche inquinanti, luoghi che offrono sì occupazione a migliaia di lavoratori, ma uccidono i cittadini coi loro veleni.
Certo, nel presente si sviluppa l’economia, ma compromettendo il futuro.

Potrei fare molti altri esempi.
Quello che è certo (ed è la storia a dircelo) è che, per la sopravvivenza e lo sviluppo di una città, di uno stato, di una collettività, nel lungo periodo, “avere un’idea di sé”, un proprio orgoglio e quindi una propria morale, conta molto più del Pil.
Il “primato dell’economia” è infatti una polpetta avvelenata che lì per lì esalta, sembra risolvere magicamente tutti i problemi, ma, poco a poco, finisce per distruggere l’anima della comunità, la porta lentamente al collasso, al disfacimento, alla fine.

Proprio come per la Venezia del settecento.
Proprio come per le dosi di cocaina comprate ogni giorno da un pusher, in pieno centro di Roma.

 

[La foto del titolo, di Marco Verch, è stata diffusa con licenza creative commons su Flickr.com]

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