Le 7 fatiche dei romani ai tempi di Raggi

Pubblichiamo alcuni estratti di Malatempora, il nuovo libro di Daniela Amenta, ex giornalista dell’Unità e di altre testate, esperta musicale, autrice di un romanzo e di saggi , ex conduttrice radiofonica, ma anche romana e utente di mezzi pubblici che vive in periferia.

È un diario giorno per giorno di Roma tra l’inizio del 2016 e la fine del 2017, cioè dal periodo del commissario Tronca alla vicenda di Spelacchio, visto spesso dal percorso quotidiano del bus 160, o dalla banchina della metro, o da una piazza della Montagnola.

È una carrellata di passaggi comici, o più spesso tragicomici, riflessioni de core, poco politiche nel senso di partigiane, ma ampiamente critiche. Pezzi di bravura, spesso consegnati alle pagine Facebook. Uno spaccato di Roma, oggi. Città che Daniela ama, nonostante tutto.
Il libro, edito da All Around, si può acquistare anche sul sito www.edizioniallaround.it.

Intro

Questo libro è lo slalom faticoso di chi abita a Roma, una sorta di diario lungo due anni. Appunti presi sugli autobus perennemente in ritardo, sugli affollatissimi vagoni della metro, negli infernali Pronto Soccorso degli ospedali, nei palazzacci della burocrazia che ammazza ogni resistenza, nei supermercati “ prendi cinque paghi uno” dei quartieri popolari invasi dall’immondizia, nei condomini dove alle 7 del mattino c’è sempre qualcuno che fa bruciare uno spicchio d’aglio tanto per farti uscire di casa già con la nausea. Appunti che a volte sono uno scherzo, a volte denuncia. Perché per sopravvivere qui ci vuole una bella dose di ironia. Ci vogliono coraggio e determinazione e un po’ di sano cazzeggio per non prendersi troppo sul serio e non farsi travolgere dall’eterno casino.

 

Obitorio

Per esteso, l’insegna dice: “pizzeria dei marmi”. Ma non c’è uno in questo budello di Caput  che l’abbia mai chiamata così. Qui è detta, ovvero unanimente riconosciuta, come “pizzeria l’obitorio”. o per la precisione “obitorio” che i passati proprietari, famiglie Moroni e Casini, s’encazzavano pure un bel po’, toccandosi le parti basse senza manco fingere improvvisi danni prostatici.

Sta qua da sempre, l’obitorio, viale Trastevere, circa 2mila tavoli in marmo bianco da anatomopatologo e una corte di infermieri-camerieri che va e viene a duemila mentre la caposala, biondissima occhialuta e procace, chiama a voce alta 22 margherite, 15 capricciose, 18 napoli, 6 ortolane (una senza alici). Bisturi, plis.

E’ una fabbrica, è il ministero della pizza romanesca, sottile, ostia croccante, niente de che, ma il rito è rito, e l’obitorio ne fa parte perché è qui, e qui resta. a dispetto del tempo, e sempiterno, con le pale dei ventilatori che gracchiano e graffiano il soffitto, il bancone di marmo, l’alzatina degli alcolici compresa una boccia di liquore Strega, ormai più verdognola che gialla. Uguale, uguale, anche a ripescare i ricordi più lontani, con la scritta al neon: supplì al telefono, filetti caldi di baccalà, fagioli al fiasco, con le cotiche, con l’osso di prosciutto, e la magnifica insalata capricciosa, mai mangiata, ultimo e inespresso desiderio da rimandare per quando sarà tardi per davvero.

Ma all’obitorio non è tardi neanche alle 2 del mattino. che gli infermieri-camerieri spingono de brutto, col nome sulle camiciole bianche, ma basta che li chiami “capo” e arrivano, cioè accorrono al capezzale, strusciando piedi, piedi che percorrono chilometri, chilometri d’asfalto e carciofini, un miliardo di uova sode, tremila tonnellate de pommodoro e mozzarella. Qui la pizza s’accompagna a gazzosa Neri e ‘na fojetta, quarto di vino castellano bianchissimo e rughetta “nun ce sta”, al massimo cicoria ripassata, e l’anguria calda arriva mescolata ai cubetti di ghiaccio. E Roma, all’improvviso,  pare Roma.

 

Fiume

Questo Tevere qui, di schizzi, tuffi e nuotate, di chiatte-solarium e di allegre brigate, non l’ho mai visto. Ne conosco un altro di Tevere. Ci sono cresciuta accanto a “fiume”, che qui, nella città periferica, non prevede articolo. Come divinità. “Fiume”, e basta. A ribadire il fiume dei fiumi.

Mi ricordo voci concitate: “Gesù, è uscito fori fiume”. E s’ingrossava il biondo-giallo, superando gli argini, sfiorando la volta dei ponti. Gonfio e maledetto, gran rigurgito, e vortice, via di corsa verso il mare, con furia di natura bizzosa. e stizzita. Gesù, ci coprirà  di fango, tronchi, melma e merda.

Fiume mio è Roma Sud, ben diverso da quello che scorre tra il Ponte degli Angeli e l’Isola tiberina. Sul fiume giocavamo, con mille storie-incubo addosso, di bambini risucchiati dai gorghi, di dame pallide e mortifere pronte a ghermirci, con lo sfondo della città industriale, fantasma: il Gasometro, le alte tensioni dell’Acea, il ponte di Ferro, la serie dei mulini che in tempo di guerra davano molliche a tutta la città.  E poi l’odore, indimenticabile. Salnitro e maglie sudate, sabbie mobili e canneti, anguille e mignotte. Si cresce in fretta accanto a fiume perché le mignotte s’annoiano e c’hanno voglia di raccontare, in ogni fratta indicano una coppia e spiegano bene, in dettaglio, il sommovimento delle felci.

Poi ci sono i pescatori. Che pescano per vizio-vezzo, pescano e liberano la preda. “Giusto per tenersi in forma”. E hanno canne lunghe e canestri e bicchieri di pane ammollato nel formaggio e mille bigattini. Ci vedevi di tutto accanto a fiume: ragni mastodontici e tosatori di cani, adolescenti in fregola e barboni di Tevere che descrivono topi di 4 metri per 4, mute di bestie selvatiche. Ci morì un bambino quando ero piccola. Fiume se lo portò via, era il figlio dei padroni del “Bar dello sport”. Entrò a sfidare, a riprendere una palla. Fiume se lo tirò dentro, in fondo.

In fondo è tutto scivoli. Tocchi, non tocchi, fa paura, è sgomento, perché è giallo ocra e se t’agiti non si vede niente, s’alza la fanga viscida e via, n’attimo, e sei già  andato. Fiume ti insegna a respirare con calma, a vagliare, e a mollare la presa in tempo se non ne vale la pena. Tornavamo a casa noi rigazzini di fiume con l’argilla in tasca e il cuore in tumulto, le scarpe zozze e i pensieri scompigliati, come capelli.

Era il nostro circo macabro, fiume. Più in su, Roma nord, ce n’è un altro. Si chiama Tevere pure esso, ma è altro. Lì pescano per davvero e s’avvistano animali di palude molto pericolosi e di gran stazza. Solo l’odore è identico. E indimenticabile. Il Tevere si riconosce col naso e se ti riconosce ti saluta. Buongiorno e Buonasera. Tanto che il sangue nei polsi si fa fiume. E’ acqua, ma acqua che scalpita e ribolle pe usci’ fori. All’aria.

 

5 febbraio 2016

A sera tarda i passeggeri diradano. E sull’autobus 160 c’è posto per me e perfino, sedile accanto, per un libro. Mi
perdonino i ragazzi del Cabaret Voltaire e Hugo Ball in particolare se translo un appunto dada attribuendolo all’A-
tac, agenzia dei trasporti della Caput. “Il dadaista, come l’autista del 160, ama lo straordinario, addirittura l’assur-
do. Si saltino steccati, si annulli la corsa delle 22 dal capolinea. Il dadaista e l’autista sanno che la vita si afferma nel- la contraddizione e nell’annientamento del generoso (e disperato) passeggero in attesa da oltre 40 minuti. Al diavo-
lo le barbarie della puntualità, morte al servizio pubblico e all’insopportabile mondo del buon senso. L’autista del 160
è dadaista. Ama lo scherzo. Ama sfrecciare senza fermarsi. Onore a Tristan Tzara”.

 

5 aprile 2016

Alla fine Roma è questa: 3000/4000 cazzoni al giorno a fare la fila per mettere la mano dentro il buco di un tom-
bino, tale era questa cosiddetta “Bocca della verità”. Il chiusino di una fogna, della Cloaca Maxima. 3000/4000 cazzoni moltiplicati per un miliardo.
La perpetua sòla di una città che vive di espedienti, e l’ha pure dimenticato.
L’unico luogo del pianeta che prevede adoratori di tombini.

 

27 luglio 2016

Dalla vostra trainspotter.
Oggi Svizzera in Rome. Perfezione di coincidenze. Prendo la metro B in risalita salmone con uno zompo e nel vagone non condizionato mi imbatto in giovane moltissimo tatuato con canino al seguito di nome Pet (poi capirete perché so il nome del canino).
Il ragazzo attacca bottone con 2 young americans. «The name of dog?», chiedono, mentre lui farfuglia cazzate tipo
«Rome is beauty, where you are? My name is». Allora io intervengo e dico: «T’hanno chiesto er nome der cane».
«Pet se chiama Pet, bello Pet».
Le americane sorridono, carezzano il cane, scendono a Colosseo. Lui ignorato dalle yankee che spediscono bacetti a Pet. A Garbatella però il testosterone ha avuto la meglio sul padrone di Pet che s’accorge di una ragazza dai tratti orientali in uscita con short al seguito.
«A cine’ sei bbona», dice il padrone di Pet. Due volte. Cine’ zero reazioni, scrive messaggi sul cellulare con due dita, velocissima.
«Sei bbona, me capisci? Understand? Capisci? Me capisci? Bona».
Cine’ lo guarda come fosse un ragno assurdo cor cane mentre s’aprono – piii piii piii – le porte della metro B – e in perfetto romanesco soffia: «Sì, te capisco. Capisco che te ne devi anna’ affanculo»
Chiusura porte, prossima fermata San Paolo. Pet finalmente si sdraia su un sedile, vinto dall’africana canicola.

 

5 settembre 2016

In sintonia con Manuel Fantasia, nuovo Ad dell’Atac l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, sulla banchina Marconi-Termini viene suggerito ai passeggeri un look appropriato. Sul retro dell’abbonamento mensile intanto è già stato stampato Topolino vestito da mago. E dire che nel ’77 scrivevamo sui muri “Fantasia al potere”. Ci hanno preso
sul serio.

 

21 dicembre 2016

Oggi, come ogni volta che ci sono sangue e attentati, il viaggio in metro è stato un affanno. A Marconi hanno fatto scendere dai vagoni tutti quelli che andavano a Laurentina e Metro B è andata un bel po’ a rilento. Un sacco di annunci tipo abbandonare il convoglio coi turisti che non capiscono e sgranano gli occhi, e un’aria tesa.
Poi a Barberini sono scesi giù i soldati, armatissimi, in banchina perché vicino a una delle tre panchine c’era un
pacco sospetto. Ci siamo tutti dispersi lungo il marciapiede, oltre la linea gialla, tutti con il nostro batticuore, non so perché io mi volevo tappare le orecchie, stare in silenzio con le orec-
chie tappate.
Questi soldati rigazzini hanno toccato il pacco con il piede e forse era leggero perché è caduto su se stesso. I soldati rigazzini hanno guardato dentro, non so che con coraggio ma l’hanno fatto, non hanno chiamato rinforzi, artificieri, hanno guardato loro. Non era un pacco. Era una confezione Todis spumante e panettone, 4 euro e 99 centesimi, che qualcuno aveva dimenticato. È arrivata la vigilanza Atac ed è stato portato via, magari avranno fatto anchun piccolo brindisi, non so. Poi stasera sul sedile ho trovato anche una sciarpetta. Me la sono messa in testa con un fiocco.
Questa sensazione di essere vivi.

 

[Le foto pubblicate in questa pagina, tutte diffuse su Flickr.com con licenza creative commons, sono, in ordine di apparizione, di Wabisabi 2015, Kahlrul22, Emanuele Longo, Alessandro Ambrosetti, That Photo Taker]

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