Non solo Spelacchio: W gli alberi di Roma

Secondo Virginia Raggi nel corso delle festività, si è parlato troppo del famigerato Spelacchio – l’abete rosso che la Sindaca a Cinque Stelle ha fatto venire dalla Val di Fiemme per addobbare Piazza Venezia, in affidamento diretto, al costo complessivo di oltre 48.000 Euro – e poco dei tanti altri casi di denaro sperperato dalle precedenti amministrazioni, in operazioni ben più fallimentari.

Mi sento di rassicurare Raggi: il punto non è che si è parlato troppo di “Spelacchio”, ma piuttosto che se ne è parlato male.
Le opposizioni e una parte consistente della stampa si sono limitate ad osservare che l’albero era brutto, inadeguato per una Capitale mondiale, costato troppo – circa il doppio rispetto al passato – e che, pochi giorni dopo l’installazione, era “già morto” (come se di norma un abete di 20 metri estirpato con un pugnetto di radici sotto al tronco sia da considerare vivo e vitale).

Tutto vero e da sottoscrivere, per carità, ma il dibattito politico dovrebbe qualche volta a sollevarsi dalle categorie “spreco/efficienza”, “decoro/degrado”, “onestà/corruzione”, e magari mostrare che i vari partiti e movimenti si distinguono tra di loro non solo perché uno è più bravo dell’altro a fare esattamente la stessa cosa, ma principalmente perché vorrebbero fare cose diverse.

Nonostante le occasionali spennellate di verde a destra, sinistra e centro, nessuno ha eccepito che è l’idea in sé di utilizzare un albero morto come decorazione natalizia ad essere discutibile.
Fa poca differenza che l’abete di Piazza Venezia sia arrivato già in pieno rigor mortis , mentre quello fatto venire dal Vaticano per Piazza San Pietro abbia mantenuto un aspetto gradevole per tutti i giorni della propria agonia. Sempre di alberi defunti si trattava.

A quale sensibilità ecologica o ecologista corrisponde l’idea di festeggiare la nascita del Signore (per chi è credente), o comunque celebrare gli affetti, l’amore, l’impegno per un nuovo anno che inizia, sotto un pezzo di legno morto o moribondo?

Ancora oggi, purtroppo, l’albero in città è visto solo come un abbellimento, un oggetto (se non un pericolo) e non per quello che è in realtà, ossia un essere vivente, che peraltro, con le dovute cure, contribuisce a purificare l’aria che respiriamo e svolge, soprattutto in estate, una funzione di riequilibrio della temperatura.

Perché allora, piuttosto che spendere quarantamila o ventimila Euro l’anno per far venire a Roma un abete rosso morto da chissà dove, non si spende più o meno la stessa cifra – ma una volta per tutte –per impiantare un albero vivo e vegeto, da addobbare ogni Natale?

A Roma abbiamo anche maestosi alberi di Natale, ma sarebbe meglio piantare un cedro, a piazza Venezia

Nonostante il cambiamento climatico, a Roma abbiamo vari maestosi alberi di Natale (ad esempio, nei pressi di Porta Capena, vicino alla Fons Mercurii, c’è un bel cipresso di Leyland, che ha una forma molto simile all’abete), ma si potrebbe pure piantare a Piazza Venezia un bel cedro del Libano, che è una conifera come l’abete, ne richiama la forma e sopporta meglio il caldo.

Certo, un bel grattacapo bipartisan: a quel punto non ci sarebbe più la possibilità di svolgere gare o, peggio, procedere in fretta e furia ad affidamenti diretti, e toccherebbe invece prendersi cura con continuità di un bene comune, per giunta vivente, magari facendo funzionare di nuovo a dovere il Servizio Giardini.

E non finisce qui. Nel corso di questa consiliatura con maggioranza “monocolore” Cinque Stelle, abbiamo assistito al più ampio intervento di espianto, capitozzatura o potatura di alberi degli ultimi quindici anni. Ne hanno fatte le spese, tra gli altri, i pini di Via Appia Nuova, ma anche molti platani su Via Salaria, e chissà quanti altri malcapitati.

L’Amministrazione Raggi, tanto per cambiare, ha tentato goffamente di prendersene il merito ma, a ben vedere, le potature straordinarie non sono altro che il compimento di un bando lanciato dalla precedente Giunta Marino per il “monitoraggio” (e, se necessario, l’abbattimento) del verde verticale. Un’esternalizzazione di una funzione del Servizio Giardini.

Di fronte allo scempio dei grandi pini di Via Appia Nuova – tronchi mozzati dal diametro di oltre un metro – ho deciso qualche settimana fa, insieme ad alcuni altri cittadini, di effettuare un accesso agli atti per verificare che fossero state effettuate almeno delle perizie prima di procedere con le motoseghe.

Le perizie in effetti erano state svolte, e la loro lettura è stata sconfortante.
Si legge ad esempio nell’analisi preliminare dell’agronomo Chiarot, datata 1° novembre 2017: “Gravissima è la situazione in cui versa l’intero doppio filare che delimita le due corsie della Via Appia (…) al di là di ogni ragionevole dubbio si ritiene assolutamente prioritaria (…) una potatura di tutti gli esemplari di pino, nessuno escluso, trascurati da oltre un decennio (…) per alcuni esemplari le condizioni appaiono talmente evolute in maniera infausta, da rendere necessario procedere all’abbattimento (…) Una tratta (…) presenta sul fusto degli alberi dei tiranti obsoleti composti da un collare blandamente ancorato a terra con funi d’acciaio, talune spezzate. Lo stato di semi abbandono di queste opere, totalmente inutili nel garantire una maggior sicurezza dei luoghi sottostanti, ha reso possibile il fenomeno diffuso di inglobamento da parte della corteccia arborea, andando a creare una caratteristica strozzatura che (…) corrisponde a un pericolosissimo punto di debolezza e di possibile frattura”.

Lo scempio dei pini di via Appia Nuova

Oltre dieci anni senza cura e manutenzione dei pini. Alberi che – pur notoriamente poco adatti ad essere posti al margine stradale – costituiscono un elemento caratteristico del paesaggio romano, hanno un valore economico, una grande importanza per la mitigazione degli effetti dell’inquinamento e dell’aumento della temperatura. E che, dopotutto, sono pur sempre esseri viventi, destinati a farci compagnia nel nostro viaggio.

Dieci anni in cui, se togliamo i due anni e mezzo di Marino – che, come detto, almeno un bando per la potatura è riuscito a metterlo in piedi – e l’anno appena trascorso di Raggi, campeggia l’infausto quinquennio di Alemanno, con gli ultimi strascichi della seconda Giunta Veltroni (seguita da breve commissariamento), complessivamente molto più predisposta al cemento che al legno vivo.

Roma Capitale sembra finalmente essere sul punto di dotarsi di un Regolamento del verde pubblico, attualmente allo studio presso l’Assessorato alla Sostenibilità Ambientale. Nella bozza informale che è stata sottoposta informalmente ai cittadini e ai comitati, all’articolo 2, punto 9, si legge che “L’albero è un bene immobile (art. 812 Codice Civile) di primaria importanza ambientale e paesaggistica”.

Se nella nostra epoca, in cui il confronto politico si riduce a tifoseria – esemplarmente nel caso di “Spelacchio”, in cui qualcuno si è fatto punto d’onore di brindare e festeggiare allegramente sotto lo scheletro argento-plastificato del cadavere – dicevo, se nella nostra epoca fosse possibile confrontarsi anche sulle idee e sui valori, come Verde ed ecologista suggerirei che, nel suddetto Regolamento, si scrivesse pure che gli alberi, dopotutto, non sono solo decori o “beni immobili”, ma creature viventi.
E che, ove possibile, una volta messi a dimora nella nostra città, si dovrebbe cercare di non ammazzare gli alberi o quanto meno di non sottoporli a tortura, come nel caso dei pini strangolati di Via Appia Nuova, dei tanti lecci stritolati nelle armature di ferro e infestati dai parassiti, dei siliquastri di Via Cola di Rienzo con le radici ingabbiate, dei cipressi spartitraffico e via dicendo.
Se fosse possibile.                              

[La foto di Elisabetta Stringhi è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons il 29 giugno 2013                                                                

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