Il Tevere, mio padre e le mie fidanzate

I primi ricordi del Tevere non sono i miei, sono quelli di mio padre.
Mio padre che impara a nuotare nel fiume, negli anni Trenta, dalle parti della stazione di Magliana Vecchia.
Mio padre che salva un ragazzino che sta affogando: e siccome quello si agita, mentre lui lo cinge da dietro, gli dà un calcio e per caso gli fa esplodere una specie di grosso foruncolo, ma grosso!, che aveva sulla chiappa.
Mio padre che con gli amici ruba dei grossi cocomeri e per riportarli a casa li getta, e si getta, nel fiume, spingendoli contro corrente fino al Trullo.
Mio padre adolescente, dopo la Guerra, che si improvvisa barcarolo e traghetta da una riva all’altra passeggeri — il ponte non c’è più, l’hanno bombardato — facendoli pagare.

(Nella mia mitologia familiare, e paterna in particolare, il Tevere ha sempre occupato un posto importante, insieme alla Guerra. Un misto tra le avventure di Huckleberry Finn e Guerra d’Eroi)

Per un bel po’ d’anni ho vissuto a Ostia. Ci ho vissuto così tanto che se dovessi dire da dove vengo, in una Roma fatta di rioni e quartieri e borgate, non potrei non dire: vengo da Ostia. E per essere pignoli: vengo da Ostia Levante, tra la stazione e via dei Promontori: lì vicino Ostia finisce e dopo un po’ inizia la pineta di Pianabella.

Il nome Ostia, dicono, viene da Ostium, che in latino significa bocca, porta d’ingresso e appunto foce del fiume, per estensione, foce del Tevere.
Ma il rapporto col Tevere di chi abita oggi a Ostia è zero, è nulla, non vale niente.

Eppure, il fiume porta sedimenti — pochi, ormai, perché nella loro corsa verso il mare vengono bloccati da cave e dighe, ed anche per questo che l’erosione della costa non si ferma e le spiagge si accorciano.

Il fiume porta inquinamento — anche se meno, molto meno, che negli anni 70, quando era vietato farsi il bagno in parecchi posti: ma alla fine, noi ragazzini che a Ostia facevamo pure le vacanze, non resistevamo al richiamo del mare, pur se zozzo.

Il fiume porta barche: tante, ormeggiate nel più grande porto turistico del Mediterraneo — e anche il più abusivo — quello di Fiumara Grande. E ancora adesso, quando percorro via Tancredi Chiaraluce, una strada che passa tra i campi, il depuratore e la riva sinistra del Tevere, guardo meravigliato gli alberi delle barche che spuntano dall’argine.

Non so dove mio padre portasse le sue fidanzate o comunque le ragazze che gli piacevano.

Io le ho sempre portate a Fiumara, a guardare scorrere il fiume, a vedere i bilancioni abbandonati, attraversando il villaggio desolato e desolante che sorge lì accanto. Un ammasso di baracche, in pratica, dove però arriva l’autobus, lo 01.

Non era (e non è) certo un bel posto, se uno si aspetta paesaggi da cartolina, ma per me ha sempre avuto un certo fascino, soprattutto col mare mosso.

Chiamatela estetica del brutto, se volete.

Non a caso lì vicino c’hanno ammazzato Pasolini, e gli hanno pure costruito un monumento alla memoria brutto, ma così brutto, che c’è voluto pure un certo sforzo, secondo me, per inventarselo (qualche anno dopo a Ostia, in una piazzetta che è un po’ il salotto della borghesia compradora di quartiere, ne hanno eretto un altro, di monumento: ma è brutto pure quello).

Dall’altra parte del fiume c’è Isola Sacra, uno dei posti più orridi del litorale romano, dove sotto le villettacce abusive sorte a grappoli negli anni 70 c’è un gran pezzo di storia e archeologia importante della Roma Imperiale.
E ringrazio sempre il cielo di non essere finito ad abitarci: anche i miei avevano comprato un terreno, con l’idea prima o poi di costruirci. Ma alla fine lo vendettero, per comprare la casa dove abitavamo.

Però, lì vicino, c’è anche Tor San Michele, una torre michelangiolesca occupata a lungo dall’Aeronautica militare e oggi praticamente abbandonata. E risalendo la foce ci sono gli scavi di Ostia Antica e il Castello di Giulio II col suo borgo: un castello vero — anche se le merlature sono state aggiunte in seguito — costruito sul corso del fiume come antica dogana. Solo che poi il Tevere, dopo una grande alluvione, a metà del ‘500, ha cambiato corso. E ora il castello se ne sta lì, in bella mostra, come una specie di gigante addormentato.

Non so se alle mie fidanzate sia mai piaciuta, Fiumara. Probabilmente erano innamorate di me o distratte dalla mia fluente parlantina. Però, l’ultima che ci ho portato, e che all’epoca non parlava ancora perfettamente italiano — no, non è di Acilia: è francese — mi ha guardato con uno sguardo inconfondibile e in cuor suo ha pensato: guarda ndo cazzo m’ha portato questo. Però mi ama ancora, e ama anche il Tevere. Anche se non è mai voluta andare ad abitare a Ostia.

[Ho scritto queste righe per una serata di lettura e immagini , nel 2015, dedicata al Tevere, organizzata dalla giornalista e scrittrice Daniela Amenta al “Biondo Tevere”, un ristorante romano con vista sul fiume, famoso per essere stato l’ultimo posto visitato da Pier Paolo Pasolini prima di arrivare all’Idroscalo, dove fu ucciso]

[Le foto che illustrano il titolo e il testo sono tratte da Flickr.com e sono state diffuse con licenza creative commons]

One thought on “Il Tevere, mio padre e le mie fidanzate

  • 29 Settembre 2017 in 16:53
    Permalink

    caro Max, anche a me piace molto fiumara, entrare dal mare, e percorrere il fiume, al tramonto, in barca, ha qualcosa di magico. A sinistra le bilance a destra l’idroscalo, poi i cantieri e le rimesse, barche ovunque, ma soprattutto il fiume, l’acqua che scorre. Un bel posto davvero.
    uno scritto molto suggestivo, il tuo

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