Sole cuore amore, la Crisi a Roma

La settimana scorsa, lo spiacevole episodio di cronaca che ha coinvolto una cassiera romana di Mediaworld  a cui è stato più volte negata la possibiltà di andare al bagno durante il turno di lavoro ha avuto molti trafiletti sui quotidiani locali, ma poche analisi e approfondimenti nei giorni immediatamente successivi.
L’uscita del nuovo film di Daniele Vicari, Sole cuore amore – ora nelle sale – è come se fosse arrivata giusto in tempo per emettere anche su tutta questa vicenda un verdetto inequivocabilmente spietato e glaciale.

Con il discusso Diaz il regista reatino aveva lavorato soprattutto sull’impatto, aggredendo in modo frontale il senso dell’idea o della rabbia che potevamo ancora avere sui fatti di Genova e Bolzaneto del 2001.
Al contrario, con questa nuova pellicola Vicari sembra voler confrontarsi in modo più graduale e progressivo con gli strati più assopiti e abbandonati della nostra coscienza.

Il fatto che la crisi che stiamo vivendo non sia stata brusca e aggressiva come quelle precedenti, ma che ci stia togliendo privilegi e benessere a poco a poco, ci rende indiscutibilmente molto più remissivi ai suoi effetti.
La storia di Sole cuore amore elabora perfettamente proprio il senso di ineluttabiltà, la rassegnazione e la mancanza di alternative con cui devono fare i conti i nuovi poveri delle periferie romane.

La splendida Isabella Ragonese è l’infaticabile Eli che con quattro figli e un marito disoccupato, tutti i giorni, senza mai un turno di riposo, si alza alle quattro e parte da Nettuno per affrontare due ore di mezzi pubblici e raggiungere il posto di lavoro, in nero, in un bar sulla Tuscolana.

Vicari rende al meglio il senso della frenesia, esasperazione e svuotamento dei lavoratori sfruttati che sanno che senza stipendio perderebbero tutto. Cinematograficamente forse le scene più belle sono quelle di notte, quando la stanchezza si confonde con l’ evasione e la protagonista, nel letto, non sa se abbandonarsi a essa o ad una sonno quasi avvilente.

Come il lavoro tiene Eli incessantemente distante dai suoi figli e dal residuo di tempo ed energie necessarie per pensare di trovarne un altro, la passione per la danza allontana la sua amica, interpretata da Eva Grieco, dalla famiglia e dal resto della società.
In questo senso Vicari elabora una rappresentazione desolante delle nostre relazioni in cui il lavoro automizza e la condizione di artista ti declassa in cittadino di serie inferiore.

Quasi tutti gli economisti che negli ultimi anni hanno vinto un Nobel indicano la necessità di dover ridurre le ore lavorative per impostare una redistribuzione della dignità e del benessere. Il sociologo Domenico De Masi, nel suo ultimo libro, scrive che è inutile pretendere il lavoro per i disoccupati, se intanto gli occupati fanno straordinari e sono mobilitabili dai loro principali persino nei giorni festivi.
Questo squilibrio è filmato bene da Vicari, che mette in scena il rapporto tra una moglie sfinita e sfruttata e il marito sempre a casa, dimesso e avvilito.

L’esperienza del regista nei documentari rende sicuramente più compiuto lo sguardo sul realismo quotidiano e desolante della protagonista. In un certo senso però è come se il punto di osservazione dello scontro tra Eli e il suo padrone fosse troppo vicino e non ci fosse alcuna via d’uscita oltre il dramma.

Vicari prende spunto da un fatto realmente accaduto, ma è come se noi non fossimo più abituati a confrontarci con certi episodi di cronaca senza il clamore di Barbara d’Urso o i servizi delle Iene. Ken Loach magari è riuscito a rappresentare le condizioni del sottoproletariato altrettanto bene senza partire da condizioni così problematiche come quella di avere tutto insieme quattro figli, un lavoro lontano quattro ore, un marito disoccupato e un capo brutale.
L’esperienza di Vicari però è incredibilmente necessaria proprio per capire quanto dobbiamo lavorare in prima persona per recuperare la nostra coscienza.

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