Mafia Capitale è grave anche senza mafia

La notizia strombazzata ieri dai media dell’archiviazione per 113 imputati nell’ambito del processo Mafia Capitale non è una novità clamorosa, anzi. Era stata la stessa Procura, l’estate scorsa, a chiederla. Molte delle persone per cui è stata chiesto di non procedere restano comunque imputate di altri reati.
Ma mentre il maxi-processo nell’aula bunker di Rebibbia prosegue (dovrebbe terminare a maggio) l’interesse sembra concentrarsi sempre sulla stessa questione: era veramente mafia oppure no? Come se il ciclone che ha investito Roma nel 2014, provocando anche indirettamente la caduta della giunta Marino, non fosse rilevante e grave di per sé.

Nel luglio del 2016 i magistrati inquirenti avevano deciso di chiedere l’archiviazione per 116 imputati, in mancanza di prove convincenti su alcuni reati, per evitare di mettere a repentaglio tutto il processo.
Una parte delle accuse erano basate su dichiarazioni di Salvatore Buzzi, il presidente della cooperativa 29 giugno, indicato in sostanza come il capo “politico” di Mafia Capitale, di cui Massimo Carminati sarebbe stato invece il leader “militare”. I magistrati non sono riusciti a trovare elementi utili a sostenere le dichiarazioni di Buzzi.

Per 15 persone (il più noto è l’ex sindaco Gianni Alemanno, che sarà però processato per corruzione e finanziamento illecito), è caduta l’accusa di 416 bis, cioè l’associazione mafiosa, che però è ancora sostenuta per altri imputati. Per altri è saltata l’accusa di associazione a delinquere “semplice” (riferita a certi episodi). Escono invece definitivamente dal processo alcuni amministratori ed esponenti politici, come il presidente del Lazio Nicola Zingaretti (Pd), la presidente del Municipio I di Roma Sabrina Alfonsi (Pd) e il consigliere comunale della Lista Marchini Alessandro Onorato.

Il maxi-processo però non è l’unico momento giudiziario dell’inchiesta Mafia Capitale. A fine gennaio sono arrivate le condanne d’appello col rito abbreviato per quattro persone. Per uno degli imputati, Emilio Gammuto, è venuta meno l’aggravante mafiosa che gli era stata inflitta in primo grado.
Nel 2016 avevano patteggiato l’ex vice capo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, per una vicenda legata al Centro accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo, in Sicilia, e quattro ex dirigenti della cooperativa La Cascina (azienda legata al mondo di Comunione e Liberazione). E sono stati condannato per corruzione col rito abbreviato l’ex assessore della giunta Marino Daniele Ozzimo (Pd) e altre quattro persone.
Condanne che individuano degli episodi specifici, ovviamente, mentre sarà quella del maxi-processo a dire se si trattava di un sistema o meno.

Certo, l’ipotesi che si tratti di un sistema mafioso è suggestiva. E su questo ha puntato il procuratore capo Giuseppe Pignatone, per anni impegnato a combattere la ‘ndrangheta in Calabria, cercando di aggiornare l’idea che la mafia sia un tipo di organizzazione che controlla militarmente il territorio, e che senza quel controllo non ci sia mafia. Una tesi che nei mesi scorsi i giudici hanno rigettato, nel processo contro una serie di gruppi criminali a Ostia.

Ma se fosse solo un sistema corruttivo, quello che ha imperversato attraverso il raccordo tra criminali, imprenditori, burocrati e politici, sarebbe molto meno grave, per Roma?